martedì 28 gennaio 2020
Al Mast di Bologna esposto un progetto che racconta le “divise” nei diversi impieghi e nei cambiamenti della società: colletti bianchi e blu, militari e hostess fino agli ordini religiosi
Giovane operaia in cantiere, Forlì, 1978 (particolare)

Giovane operaia in cantiere, Forlì, 1978 (particolare) - © Paola Agosti

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Ci sono i colletti blu e quelli bianchi. Per un periodo, negli anni Novanta, ci sono stati anche quelli “rosa”, ma l’espressione non ha però avuto seguito. E poi ci sono i camici bianchi, i grembiuli, e le divise di tutte le tipologie, militari e forze dell’ordine, così come di hostess e steward delle compagnie aeree, e poi di fattorini, artigiani e operatori di servizi, operai di specifiche aziende, fino agli uomini di Dio. Con la consapevolezza che non è l’abito che fa il monaco, ma che sicuramente lo rende riconoscibile, ne dichiara la sua appartenenza, il suo carisma.

Il nuovo progetto espositivo del Mast di Bologna – dopo il successo di Antropocene del fotografo canadese Edward Burtynsky insieme a Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier – è dedicato alle uniformi da lavoro.

Si intitola “Uniform, into the work / out of the work” (aperto fino al 3 maggio): seicento scatti di 44 fotografi internazionali, alcuni celebri, altri meno, che mostrano e raccontano le molteplici tipologie di abbigliamento indossate dai lavoratori in contesti storici, sociali e professioni differenti, in epoche diverse, dagli inizi del Novecento a oggi.

«La moda che psicologicamente rispecchia la vita quotidiana, le abitudini, il gusto estetico – scriveva Varvara Stepanova, artista costruttivista e moglie di Alexander Rodchenko, in un saggio del 1923 – cede il passo a un abbigliamento concepito per agire in svariati ambiti professionali e svolgere una determinata azione sociale. È un abbigliamento che esplica il proprio valore sono nell’ambito del processo lavorativo e che al di fuori della vita reale non possiede alcuno scopo come una forma particolare di “opera d’arte”».

Ed ecco in rassegna i lavoratori di Walker Evans, il pescivendolo di Irvin Penn, i minatori di Song Chao ma anche l’operaia Fiat di Paola Agosti, le suore e i monaci di Timm Rauters, l’addetto della Safety Boss Company durante una pausa in Kuwait di Sebastião Salgado, i ritratti di Angela Merkel (19912008) di Herinde Koelbl fino alle indagini più contemporanee e complesse sui giovani di oggi di Barbara Davatz, e la lunga carrellata di ritratti industriali – nello spazio monografico – di Walead Beshty: 354 immagini (troppe forse per poterne cogliere tutte le sfumature) di persone con cui il fotografo ha lavorato – per lo più artisti, collezionisti, curatori, stampatori – per le quali l’abbigliamento professionale è segno distintivo, una sorta di tacito codice dell’anti-uniforme.

Operaio della Safety Boss Company durante una pausa, Kuwait, 1991

Operaio della Safety Boss Company durante una pausa, Kuwait, 1991 - © Sebastião Salgado/AmazonasImages/Contrasto

L’apertura è contemporanea, con quattro grandi scatti di Stephen Waddell che raffigurano quattro tipologie di lavoratori in pose curiose: un asphalter inglese che stende catrame caldo per strada; una assistente di volo che indossa una uniforme rosso fiammante; un eccentrico uomo d’affari in completo bianco; l’addetto di una società di servizi che consegna un pacco strapieno.

“Uniform” racconta così come la moda si lega al lavoro. «In lingua italiana esistono due parole, “uniforme” e “divisa” – sottolinea il curatore della mostra e della collezione Mast, Urs Stahel –. La prima mette in rilievo l’aspetto unificante, la seconda una dimensione divisiva: termini che rivelano inclusione ed esclusione come due azioni collegate, apparentate. Uniformi militari e civili si sono sempre influenzate a vicenda. Entrambe possono trasmettere orgoglio e rispetto ma entrambe possono essere al tempo stesso un fardello».

In Civilian Uniforms as Symbolic Communication (2017), Elisabeth Hackspiel-Mikosch e Stefan Haas, fanno notare infatti come le uniformi civili da una parte «segnalano l’appartenenza a una collettività, sia essa un’autorità statale, una corporazione o un ordine religioso, un’associazione civile o un’impresa privata», dall’altra «le uniformi possono anche escludere, tracciare linee divisorie, rendere visibili o addirittura intensificare i conflitti sociali». Per concludere: «Chi sa leggerne i segni trae informazioni di rango, posizione, ambito di competenza e responsabilità della persona che indossa l’uniforme».

Kunsthalle director

Kunsthalle director - ©Walead Beshty

L’uniforme che unisce e divide, insomma. Che fa appartenere a un gruppo, ma che taglia inevitabilmente fuori chi non la indossa. Così il racconto fotografico del lavoro diventa economico, sociale e pure antropologico.

Al punto che una divisa può far sembrare una persona anche diversamente da quella che è, o cambiarla veramente nel suo essere. Come cerca di indagare Rineke Dijkstra fotografando un giovane francese, Oliver, al momento del reclutamento nella Legione Straniera e poi in altre sei occasioni durante l’addestramento di 36 mesi.

Le foto mostrano chiaramente come il volto del ragazzo «giovane e tenero » – per usare le parole dello stesso artista – si «indurisce». Assume la fisionomia e i tratti di un uomo temprato, inflessibile. Un soldato.

C’è poi un altro aspetto, contemporaneo e stimolante di questi temi. E riguarda la globalizzazione. «Il titolo Beauty lies within (“Le apparenze non contano”) scelto da Barbara Davatz per i suoi ritratti – nota Stahel –, riprende lo slogan che per un certo periodo fu stampato sulle shopper del marchio di moda popolare H&M. La fotografa convinse alcuni commessi a posare nel suo studio per fotografarli al di fuori del contesto lavorativo ».

Davatz traccia – come aveva affermato il curatore di quel progetto, Peter Pfrunder – «una sorta di inventario sociologico ed etnografico: che aspetto hanno i giovani svizzeri nel XXI secolo? Qual è il significato dell’identità in un mondo globalizzato?». Sono giovani che provengono da Kosovo, Serbia, Brasile, India oltre che dalla Svizzera, ovviamente. «Ciò che li unisce – evidenzia ancora Stahel – è il legame con i vestiti accessibili di H&M e la concezione condivisa di un abbigliamento da lavoro che si dichiara apertamente anti-uniforme, identità globale di una giovane generazione». Informale, precaria, flessibile. Che rispetto a indossare un’uniforme – prendendo in prestito un verso di Carmen Consoli – ritiene «indispensabile uniformarsi alla media».

Giovane operaia in cantiere, Forlì, 1978

Giovane operaia in cantiere, Forlì, 1978 - © Paola Agosti

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