
Kristian Braz
«Come diceva un mio amico di Brest: la mia lingua materna non è la lingua di mia madre». Fin da quando era bambino Kristian Braz ha inseguito la sua lingua. Classe 1949, nato sui Monts d’Arrée, è il più giovane in una casa in cui i genitori, seppur entrambi madrelingua bretoni, decidono di parlare solo francese coi figli. Sono tempi in cui bisogna parlare il francese se si vuole sperare di avere successo nella vita. Negli anni Settanta, però, Braz frequenta l’Università di Rennes e lì riscopre una passione istintiva per la lingua bretone, che inizia a studiare con tutti i mezzi possibili: dal cinema alla poesia, dalla traduzione all’attivismo. È l’inizio di un viaggio di riappropriazione culturale e personale di una lingua madre, ma non materna
Cosa significa per lei il concetto di “riappropriazione linguistica”? È solo culturale o anche sociale e istituzionale?
«Tutte e tre le cose insieme, e anche, e forse soprattutto, la psicologia dei dominati che chiedono un risarcimento per un torto fatto alla loro lingua e al loro popolo».
Ostana è un luogo simbolico per le lingue minoritarie. Quali analogie ha riscontrato tra l’esperienza bretone e quella di altre lingue cosiddette “resistenti”, come l’occitano o il franco-provenzale?
«Sono rimasto stupito e ammirato nello scoprire l’esempio di Ostana, che sembra essere riuscito a trasformare un microcosmo geografico e culturale in un esempio universale. Non conosco bene l’esempio dell’occitano, che è parlato su un territorio vastissimo ed è frammentato rispetto al bretone, ma che ha una cultura scritta ricca e antica. Ciò che è certo è la necessità che le minoranze linguistiche francesi (comprese quelle d’oltremare, ovviamente) uniscano le forze e adottino le strategie che funzionano meglio in un determinato territorio».
Ci sono esperienze internazionali che hanno ispirato il suo impegno per la dignità della lingua bretone? Penso al catalano, al basco e al gaelico, per esempio.
«Sì, a partire dai Paesi che conosco meglio, cioè i nostri vicini, cugini celtici. La determinazione dei gallesi, l’immaginazione degli irlandesi e la caparbietà creativa degli scozzesi. E, naturalmente, gli esempi baschi e catalani».
Lei è anche traduttore: cosa cambia quando si scrive o si traduce in una lingua considerata “minore”? È diverso dal tradurre in una lingua dominante?
«Sì, innanzitutto perché per la maggior parte dei traduttori la conoscenza della propria lingua è inferiore a quella del francese. Tradurre richiede perciò una maggiore ricerca (che di per sé può anche essere un vantaggio). Soprattutto, c’è qualcosa di esaltante nell’aiutare le persone a scoprire in bretone autori come Steinbeck, London, Kerouac, Salinger e così via, oltre ad autori meno noti che mi piacciono particolarmente, come Flann O’Brien, John Mac Gahern e Alistair MacLeod. E dopo tutto, cosa sarebbero Dante, Cervantes o Shakespeare senza la traduzione?».
Che ruolo hanno la scuola, l’educazione e la trasmissione familiare nel futuro delle lingue minoritarie?
«Un ruolo importante, ma che non deve essere esagerato. L’aspetto più importante per me è che l’individuo sia “esposto” alla lingua il più presto possibile, e in questo senso l’introduzione nelle scuole è fondamentale, perché una volta assaggiata se ne può riscoprire il sapore; a volte anche trent’anni dopo! Credo anche che imparare qualcosa (teatro, agricoltura, falegnameria, musica o altro) nella lingua sia uno strumento fantastico. Anche le nuove tecnologie possono accelerare notevolmente il processo di apprendimento. Senza dimenticare la motivazione politica».
Se potesse rivolgere un messaggio alla nuova generazione di parlanti bretoni, quale sarebbe?
«Prima di tutto, imparate a esprimervi in modo semplice e con l’intonazione corretta, in modo da poter essere compresi da parlanti più avanzati e ottenere una vera comunicazione; imparate a fare cose che comportino il contatto con parlanti bretoni e che vi insegnino delle abilità; non accontentatevi del bilinguismo. Non ponetevi obiettivi troppo ambiziosi».
Ha mai avuto la sensazione che la sua lingua fosse “proibita” o illegittima?
«Certo, soprattutto nella mia famiglia, dove i miei genitori (in particolare mia madre) erano dei francofoni molto imperfetti che, come la maggior parte dei genitori dell’epoca, hanno deciso di parlare francese in casa, il che ha costituito un terreno di coltura particolarmente schizofrenico per loro stessi e per i loro figli. Al di là della lingua, era anche un caso di: dimentica la tua cultura, i tuoi costumi, il tuo Paese. Tutto questo porta molte persone (spesso inconsapevolmente) a un senso di inferiorità e persino, in seguito, a un disprezzo diffuso, anche per coloro che sono determinati a difendere la lingua».
Come si è evoluto nel tempo il suo rapporto con la lingua? Da una ricerca individuale a un impegno collettivo?
«Le due cose si sono sempre intrecciate, ma l’aspetto psicologico è sempre stato fondamentale per me. Ad esempio, il programma di videoregistrazioni di madrelingua bretone che ho condotto tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio degli anni 2000 era sia una ricerca personale per imparare “veramente” il bretone attraverso il contatto con queste persone, in modo che il bretone non fosse più una lingua straniera, sia un modo per fornire a studenti e insegnanti materiale linguistico e umano. Probabilmente è anche una forma di terapia, per imparare a curare quella che un sociologo bretone ha descritto come “una profonda ferita nel popolo bretone, sconosciuta a se stesso”».
Cosa rende una lingua attraente per le nuove generazioni?
«Credo che se si vuole interessare un pubblico di lettori, giovani o anziani, la cosa più importante sia offrire una storia interessante e ben costruita, espressa in un linguaggio accessibile. E, se possibile, offrire una versione audio della storia, in modo da creare un collegamento tra il linguaggio scritto e quello parlato. Ho avuto diverse occasioni di fare corsi di scrittura molto brevi con bambini piccoli ed è sempre stata un’esperienza molto arricchente, perché una volta data loro una struttura di base, sono in grado di proporre un’infinità di cose. Questo aspetto dovrebbe essere incoraggiato».
La lingua è un veicolo di appartenenza o uno strumento di disobbedienza?
«Esprimersi in bretone, occitano o basco significa disobbedire a uno standard globale».