venerdì 19 novembre 2021
Lo studioso: «Un’incognita dell’attuale pervasività delle immagini è l’apparente assenza di ostacoli, che sono proprio ciò che esorta all’interpretazione»
Victor Stoichita

Victor Stoichita - Giorgia Fiorio

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Del rapporto misterioso tra immagine e sguardo Victor Stoichita ha fatto esperienza fin da giovane, quando ancora viveva nella Romania comunista. «Ogni tanto si scopriva che il regime aveva preso in sospetto un certo tipo di raffigurazione artistica – racconta –. Potevano essere soggetti religiosi oppure figure di nudo. Per gli editori non era un problema da poco. Uno di loro, però, aveva escogitato un sistema molto efficace: faceva in modo che le illustrazioni sospette fossero sempre sulle pagine di sinistra. Sfogliando il volume in fretta, il censore si concentrava su quelle di destra e il visto veniva accordato». Nato a Bucarest nel 1949, Stoichita si è laureato a Roma con Cesare Brandi e ha proseguito la sua formazione nelle maggiori università europee, affermandosi come uno dei più originali e autorevoli storici dell’arte a livello internazionale. Libri come L’invenzione del quadro, Breve storia dell’ombra, Effetto Pigmalione e il più recente Effetto Sherlock (tutti il Saggiatore) sono contributi fondamentali per la comprensione dell’immaginario visivo moderno e contemporaneo. Nei giorni scorsi Stoichita, ora professore emerito dell’Università di Friburgo, è stato fra i relatori del Corso internazionale di Alta cultura che si conclude oggi alla Fondazione Cini sotto la direzione di Carlo Ossola (www.cini.it). Nel suo intervento, lo studioso ha affrontato il tema generale dell’incontro, “Dimore della distanza”, soffermandosi sul legame di Albrecht Dürer con Venezia. «L’artista visita la città in due occasioni – spiega Stoichita –. La prima volta nel 1494, poco più che ventenne, e poi tra il 1505 e il 1506, quando è ormai un pittore e incisore affermato. Da un viaggio all’altro, il suo sguardo si posa su Venezia in modo differente. In questione c’è appunto la percezione della lontananza, che si manifesta attraverso il paesaggio. Ma a sollecitare il ritorno di Dürer in laguna potrebbe essere intervenute anche ragioni commerciali».

In che senso?

Secondo un’ipotesi avanzata già da Vasari, la circolazione delle incisioni di Dürer era talmente vasta da rendere necessario un sopralluogo per verificare il rispetto dei diritti. A preoccupare erano in particolare le tavole prodotte da Marcantonio Raimondi, che si serviva del monogramma di Dürer senza averne avuto il permesso.

Anche nel Rinascimento il copyright poneva difficoltà?

Certamente, e accentuate dal fatto che la disponibilità delle immagini in sede privata era ancora scarsa. La situazione attuale, al contrario, è caratterizzata da una sovrabbondanza di stimoli visivi che sfiora l’inflazione. In rete trova di tutto, dai capolavori del passato ai selfie di mezz’ora fa, e il tema dei diritti si complica ancora di più.

Qual è la sua opinione?

Tutelare le opere di artisti viventi o comunque ancora sotto copyright e rendere libero l’utilizzo delle immagini che con il tempo sono divenute di pubblico dominio. Il dibattito, però, è ancora aperto.

Già in passato la nostra cultura si è interrogata sulla liceità delle immagini…

La sensibilità visiva europea è segnata da almeno due grandi crisi iconoclaste, quella che ebbe come epicentro Bisanzio attorno all’VIII secolo e l’altra scatenata dalla Riforma protestante. In un caso come nell’altro l’interdetto aveva natura istituzionale, con ricadute molto interessanti sul lavoro degli artisti, che si trovavano nella necessità di sviluppare tecniche capaci di stabilire una dialettica con l’istanza teologica posta alla base del divieto di rappresentazione. In molti dipinti della Riforma cattolica, per esempio, si pone il dilemma di come riprodurre l’oggetto della visione mistica, di per sé inaccessibile. Un espediente molto diffuso è quello di raffigurare la Madonna o i santi su una nuvola, come se si trattasse di una scena separata, che lo spettatore deve sforzarsi di interpretare.

Qual è la relazione tra immagine e sguardo?

L’immagine è sempre immagine di qualcosa. Il che significa che tra la realtà e l’immagine rimane un divario, una distanza che lo sguardo cerca di colmare. Questo accade anche nella fotografia, solitamente ritenuta la rappresentazione più fedele. La fotografia, però, parte a sua volta da una scelta, isola un elemento, lo coglie da una determinata prospettiva, lo mette in scena.

Ma perché siamo attratti dalle immagini?

Perché noi esseri umani abbiamo bisogno di racconti e le immagini sono una straordinaria risorsa narrativa, si tratti di un affresco medievale o di un vecchio album di famiglia.

Ombra, cornice, retro del quadro: in che modo l’ostacolo favorisce lo sguardo?

Esortandolo all’interpretazione, appunto. Una delle incognite derivanti dall’attuale pervasività delle immagini consiste nell’apparente assenza di ostacoli, che potrebbe essere ulteriormente amplificata con il passaggio alla realtà virtuale. Da un lato la visione immersiva esalta il nostro istinto di conoscere attraverso lo sguardo, ma d’altro canto non sappiamo nulla delle eventuali conseguenze. Nel peggiore dei casi, si rischia di perdere quello che avevamo guadagnato con l’invenzione del quadro, che delimita la struttura dell’immagine rendendola disponibile all’interpretazione.

Tra i suoi saggi ce n’è uno, memorabile, dedicato all’“immagine dell’altro”.

Vivo nel XXI secolo e cerco di affrontare le vicende del mio tempo con gli strumenti di cui dispongo. L’alterità è una delle frontiere più drammatiche della nostra epoca, ma è una dimensione che l’arte sperimenta da sempre, elaborando strategie diverse. Il motivo, a mio avviso, sta nel fatto che nessuno veramente può conoscersi e riconoscersi al di fuori del rapporto con l’altro. Già nel corso del Rinascimento quello che veniva inizialmente posto ai margini del quadro (dai servitori nei banchetti del Veronese ai tanti “mori” che compaiono qua e là) assume gradualmente una sua centralità. I valori si ribaltano, il nero brilla di una lucentezza che non lo contrappone più al bianco. Il negoziato nel quale siamo coinvolti in questo momento è ancora più complesso, perché chiama in causa il dialogo con tradizioni artistiche non riconducibili ai canoni occidentali. Ed è il motivo per cui non possiamo fare a meno di accettare la sfida.

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