giovedì 26 novembre 2020
Paolo Gulisano dedica un’indagine letteraria al detective di Conan Doyle. Il risultato, come ogni buon giallo, non è così prevedibile
Benedict Cumberbacht e Martin Freeman, moderni Sherlock Holmes e John Watson nella serie "Sherlock"

Benedict Cumberbacht e Martin Freeman, moderni Sherlock Holmes e John Watson nella serie "Sherlock" - Bbc

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Afferma di non tenere in gran conto la religione, ma risponde volentieri alla chiamata della Santa Sede, che intende avvalersi delle sue competenze in numismatica. È il modello del detective razionale (o addirittura razionalista), eppure non esclude che nelle vicende del mondo agisca una forza ostile, oscuramente simile al mysterium iniquitatis evocato da san Paolo. Sono indizi apparentemente contraddittori, che rendono ancora più appassionante questa Indagine su Sherlock Holmes condotta da Paolo Gulisano per Ares (pagine 232, euro 14,00). Studioso instancabile della cultura anglosassone, con un occhio di riguardo per gli intrecci fra cristianesimo e letteratura, Gulisano non si era mai occupato in maniera specifica del formidabile investigatore ideato da Arthur Conan Doyle. Ha lavorato molto su Gilbert Keith Chesterton e sul suo padre Brown, in compenso, scrivendo anche un gustoso romanzo apocrifo, Il destino di padre Brown, pubblicato nel 2011, a un secolo esatto dalla nascita del personaggio.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, però, Indagine su Sherlock Holmes non insiste sulla contrapposizione – fissata da Antonio Gramsci in pagine ormai famose – tra Conan Doyle e Chesterton o, meglio, tra i loro rispettivi investigatori. Gulisano va semmai in cerca dei punti di contatto, oltre che delle apparenti incongruenze che permettono di disegnare un quadro meno prevedibile di quello dato fin qui per assodato. Del resto, il primo a studiare le imprese di Holmes e dell’inseparabile dottor Watson come un “canone” organico fu proprio un sacerdote cattolico, padre Ronald Knox, amico di Chesterton, come lui cresciuto nella fede anglicana e come lui convertitosi al cattolicesimo. Un percorso inverso rispetto a quello compiuto da Conan Doyle, nato a Edimburgo nel 1859 in una famiglia cattolica di origine irlandese e formatosi presso i gesuiti di Stonyhurst, nel Lancashire. Gulisano insiste molto su questo elemento biografico che in seguito lo scrittore ha cercato di dissimulare cercando di accreditarsi come scozzese e facendo professione di un agnosticismo destinato a passare nella psicologia del suo personaggio più celebre. Laureatosi in medicina (come lo stesso Gulisano, andrà sottolineato, e come il proverbiale Watson), Conan Doyle avrebbe in realtà preferito affermarsi come autore di romanzi storici, ma lo straordinario successo delle avventure di Holmes indirizzò in maniera diversa la sua carriera letteraria. Certo, tra le sue opere ha un posto di riguardo anche la trilogia di cui è protagonista l’ardimentoso professor Challenger, a partire da Il mondo perduto (1912) del quale si trovano tracce anche nella saga cinematografica di Jurassic Park.

Alla sua morte, nel 1930, Conan Doyle è universalmente conosciuto per il metodo infallibile di Holmes e per la biografia sapientemente lacunosa del suo eroe, nella quale il non detto ha sempre il sopravvento. È lo stesso scrittore ad ammetterlo nella lettera in cui ringrazia padre Knox per la già ricordata iniziativa del “canone”. Nel momento in cui entra in scena con Uno studio in rosso (1887) Sherlock Holmes è «una semplice macchina calcolatrice», ammette Conan Doyle, ma diventa «sempre più umano» con il passare del tempo e con il moltiplicarsi delle indagini: «Non mostra mai il suo cuore – osserva ancora l’autore –, salvo che nella finzione, per gioco». Tuttavia non è incapace di sentimenti, come dimostrano l’amicizia nei confronti d Watson e la controversa ammirazione per l’avversaria Irene Adler, l’unica donna che abbia saputo tenerlo in scacco e, forse, l’abbia fatto innamorare. Iniziato alla massoneria e attratto dallo spiritismo, tanto da incappare nel famigerato caso delle fate di Cottingley (uno spudorato fotomontaggio scambiato per prova dell’esistenza delle creaturine alate), Conan Doyle ebbe una personalità complessa, che fatalmente si riverbera su quella di Sherlock Holmes. Probabilmente è questa sensazione di un’indagine rimasta in sospeso a giustificare il fiorire di continuazioni e rifacimenti. In nessuna di queste versioni il detective rinuncia alla sua fiducia nel ragionamento complesso, tenendosi a distanza da ogni ipotesi metafisica. Ma non è detto che lo spazio che così si disegna sia del tutto vuoto. Come osserva giustamente Gulisano, «la missione di Sherlock Holmes è stata quella di svelare ciò che è nascosto». Non l’invisibile, direbbe lui, ma l’inosservato. Sulla differenza tra i due termini, volendo, si potrebbe indagare a lungo.

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