giovedì 28 aprile 2022
Parla il teorico dello “spazio pubblico mediatizzato”: «Negli scambi c’è sempre una dose di “incomunicazione”. Per superarla diamo vita a negoziazioni, da cui dipendono la pace e la guerra»
Dominique Wolton

Dominique Wolton - archivio

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«Studiando la comunicazione da decenni, ho sempre inciampato su un punto: perché, pur essendoci gli ingredienti per una maggiore comunicazione, dalla libertà democratica agli strumenti tecnici formidabili di oggi, la comunicazione non funziona mai completamente, soprattutto quando si considera ciò che accade nella nostra Europa? Mi sono così detto che occorre cambiare punto di vista e comprendere che in realtà gestiamo sempre un po’ delle situazioni d’incomunicazione, come le chiamo». Il francese Dominique Wolton è uno dei maggiori teorici mondiali della comunicazione e gli si devono, fin dagli anni Ottanta, concetti fondamentali come quello di “spazio pubblico mediatizzato”, con cui ha cambiato lo sguardo delle scienze umane sui rapporti fra media e democrazia. Su tali questioni, per lo studioso, l’Europa è un laboratorio unico, come si evince dal suo ultimo saggio Viva l'incomunicazione. La vittoria dell'Europa, appena tradotto da Armando Editore, con un'introduzione del curatore del volume, Carlo Grassi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all'Università iuav di Venezia. Sull’Europa, del resto, Wolton ha spesso dialogato pure con il Papa, come già evidenziato dal volume Dio è un poeta. Un dialogo inedito sulla politica e la società (Rizzoli), frutto di 12 incontri fra il 2016 e il 2017.

Perché sottolinea tanto i nostri quotidiani rischi di fallimento nel comunicare?

Quando comunichiamo, dominano tre logiche: la ricerca della comunicazione, la realtà imperiosa dell’incomunicazione e le negoziazioni che escogitiamo per scavalcarla e cavarcela. Queste negoziazioni possono sfociare in due tipi di situazioni: o riusciamo alla fine a coabitare, oppure non ce la facciamo, sprofondando nell’assenza totale di comunicazione, che chiamo “a-comunicazione”. Se vogliamo amare appieno le persone, dobbiamo imparare almeno un po’ a maneggiare la comunicazione e le sue insidie. Non mi faccio troppe illusioni sulla natura umana, ma la comunicazione continua ad affascinarmi perché significa comunque sempre una ricerca dell’altro. La comunicazione è sempre molto più dell’informazione, già complessa di per sé.

Il libro è uscito prima della guerra in Ucraina, ma lei cita spesso il rischio bellico in Europa.

Sono in effetti ossessionato fin da giovane dalla pace e dalla guerra, ovvero da quei momenti in cui non riusciamo più a impedire lo scadimento dell’incomunicazione corrente verso un’assenza totale di comunicazione, la a-comunicazione. Ho pubblicato quattro libri di dialoghi con delle personalità, in tre di essi una delle ragioni dietro alla qualità della nostra rela- zione personale ha riguardato il condividere questa paura infinita della guerra: con il filosofo Raymond Aron, che conobbe le due guerre mondiali; con il cardinale Jean-Marie Lustiger, che era ebreo d’origine e conosceva bene il tragico; e con papa Francesco, anch’egli ossessionato dalla pace e dalla guerra. L’Europa è affascinante anche perché, malgrado tanto odio e tanta indifferenza, restiamo capaci di costruire. Ma al contempo, mi angoscia constatare che noi europei non riusciamo a gestire la questione della guerra. Durante la guerra nell’ex Jugoslavia, l’Europa ha rischiato di esplodere, riuscendo alla fine a cavarsela grazie alla Nato, pur con molte macchie. Adesso, siamo a un nuovo spaventoso banco di prova ancor più su vasta scala, con il rischio di tragiche carambole anche in altre parti d’Europa.

Un banco di prova da cui potrebbe ancora sfociare qualcosa di costruttivo?

Una politica o una diplomazia europee comuni restano impossibili. Ma è almeno possibile ritrovarsi attorno ad analisi condivise. In proposito, nelle ultime settimane, nonostante tutti gli euroscetticismi vari, gli europei sono riusciti a fare un passo gigantesco in un’azione comune. Persino in simili frangenti, l’Europa può continuare a costruirsi. Un europeismo di fondo può sbocciare pure in mezzo agli euroscetticismi politici.

All’insegna pure del valore della solidarietà?

La vendita d’armi agli ucraini, la solidarietà all’interno della Nato e soprattutto l’accoglienza dei rifugiati sono tutti punti che in partenza non erano per nulla scontati. Solo un decennio fa, molti consideravano impossibili dei passi simili. Ma in termini di solidarietà, è triste constatare la differenza di trattamento riservata ancora così spesso ai rifugiati dell’altra riva del Mediterraneo o asiatici. Paradossalmente, dunque, riemerge pure in questa fase un problema di fondo di razzismo in Europa e di odio verso le migrazioni. Eppure, qualcosa si muove contro uno squilibrio che ha finora corroso il continente: ripeto da decenni che se l’Europa dell’Ovest non riuscirà ad ammirare almeno un po’ l’Europa dell’Est, non potremo mai riunire davvero il continente.

Nel suo ultimo saggio, lei sottolinea pure che a muovere guerra non saranno mai i robot.

Anche con stormi di droni e con le tecnologie spionistiche più evolute, si torna sempre allo stesso punto: uomini che fanno strage di uomini. A saldare la guerra sarà sempre la morte, al di là di quanto le armi siano sofisticate.

Sono giorni pure di difficili trattative diplomatiche. E lei sottolinea che il negoziare è l’essenza stessa dell’Europa.

Antropologicamente, si può forse riconoscere che gli uomini preferiscono spesso odiarsi piuttosto che amarsi. In ogni caso, tanti appelli all’odio lanciati lungo la storia hanno funzionato. Ma pur essendo capaci di massacrarsi, gli uomini possono esser felici solo dando qualcosa agli altri. Dunque, quest’umano e continuo negoziare mi sembra davvero il cuore della comunicazione, soprattutto in un continente come l’Europa: costruire negoziando e cercando sempre di schivare la guerra. Mi pare un destino probabile anche per l’America Latina, attraversata da due lingue principali. Tanto più di fronte al dramma ucraino, è oggi l’unico modo di restare ottimisti.

Negoziare anche per costruire con pazienza un nuovo immaginario di pace?

In effetti, in Europa, dobbiamo ancora costruire quest’immaginario comune, che si riduce per il momento a un passaggio dell’Inno alla Gioia e a una bandiera. Ci riusciremo solo attraverso grandi programmi europei attorno ai giovani e alle loro utopie, anche artistiche: far circolare tutti, far conoscere un po’ le storie nazionali di ogni Paese, comunicare nel solco dell’umanesimo, pensare sempre pure al dopo, anche rispetto a Internet, valorizzare il Mediterraneo e le traduzioni, senza cedere all’egemonia di un’unica lingua. Molti tecnocrati hanno dimostrato del coraggio nel costruire a loro modo l’Europa. Ma solo i giovani potranno apportare la creatività per costruire un nuovo immaginario comune.

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