domenica 1 giugno 2014
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​Il 25 giugno 1942, un giovedì, Etty Hillesum venne in questo teatro e assistette a uno spettacolo di rivista della compagnia di Willy Rosen e, in quanto buona amica di Werner Levie, il direttore commerciale del teatro, ebbe la possibilità di incontrare alcuni celebri artisti che vi si esibivano. Quegli artisti avevano una caratteristica in comune: erano ebrei. E lo erano anche gli spettatori. All’Hollandse Schouwburg, che vuol dire “Teatro Olandese”, in quei giorni fu imposto un altro nome: si chiamò da allora in poi “Teatro Ebraico”. Fu una misura decisa dall’occupante tedesco. Agli ebrei non era più consentito di entrare nei teatri frequentati da non-ebrei, come agli artisti ebrei non era più consentito di esibirsi davanti ai non-ebrei. Avrebbero potuto mostrare il loro talento, al cospetto di un pubblico formato esclusivamente da ebrei, solo nel Teatro Ebraico. Il provvedimento andava a inserirsi nella strategia nazista volta a isolare gli ebrei e, in quanto tale, costituì la fase iniziale del percorso che li avrebbe condotti alla deportazione e allo sterminio. Poco tempo dopo il teatro venne utilizzato in un’altra maniera, radicalmente diversa: diventò il luogo di raccolta degli ebrei di Amsterdam che erano in attesa della deportazione verso i campi di Westerbork e Vught. I bei tempi del “Teatro del Sorriso”, come fu denominato il genere delle riviste presenti nel suo cartellone, erano finiti per sempre. [...]Durante gli anni dell’occupazione nazista persero la vita oltre centomila ebrei olandesi, che furono in gran parte uccisi nei campi di sterminio polacchi. Qui, nel Teatro Olandese, lo stesso luogo dove molte migliaia di ebrei restarono qualche tempo in attesa della deportazione, desideriamo ricordare insieme quelle vittime e, insieme a loro, ricordiamo anche tutte le altre vittime dell’aggressione che subirono dal regime tedesco e da quello giapponese. Ora vorrei procedere utilizzando tre spunti che ci vengono forniti dalla tradizione ebraica.In primo luogo, ci si chiede sovente perché commemorare eventi che la maggior parte di noi non ha vissuto – nemmeno io. Non sarebbe meglio dimenticare un passato del genere? Il passato non è una faccenda chiusa, ma continua a vivere in noi. Anche quel che è successo durante la seconda guerra mondiale non è qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle, fa invece parte della nostra interiorità. Ciò vale in modo particolare per la persecuzione degli ebrei d’Europa alla quale abbiamo dato il nome Shoah, che in ebraico significa “distruzione”. La Shoah, a differenza di quanto i nazisti speravano sarebbe successo allorché, alla fine della guerra, cercarono di far sparire ogni traccia dei campi di sterminio, non è caduta nell’oblio; viene anzi commemorata in moltissimi modi. Oggi si cerca di porre al centro dell’attenzione la vittima in quanto individuo. Sei milioni di morti costituiscono qualcosa di inimmaginabile, mentre commemorare l’assassinio di persone delle quali conosciamo il nome e le vicende costituisce un atto molto concreto che evoca non di rado un’istintiva reazione di tristezza, rabbia, incredulità e dolore. [...]In secondo luogo si tratta di effettuare una distinzione, alla quale la tradizione ebraica tiene in modo particolare. Ogni settimana, alla fine dello Shabbat, ha luogo una cerimonia in cui tale distinzione occupa un posto di rilievo e si distingue tra lo Shabbat e gli altri giorni della settimana, tra sacro e profano, tra luce e tenebre. La cerimonia si chiama Havdala, un termine derivante da una radice ebraica che significa appunto “distinguere”. Un nome assai appropriato. Che cosa ci insegna il rituale dell’Havdala ? Tra quali cose occorre distinguere? Negli ultimi anni si è sentito dire che la Commemorazione nazionale dei Defunti deve essere estesa ai soldati tedeschi seppelliti in Olanda, i quali dovrebbero essere ricordati in quanto tali. Questo il parere di alcuni, che hanno fatto seguire alle parole i fatti. Non si tratta certamente di un’opinione condivisibile. Distinguere le vittime dai loro assassini è essenziale per commemorare davvero i crimini che sono stati commessi. Chi vuole ricordare tutti, di fatto non ricorda nessuno.Ci poniamo in terzo luogo questa domanda: che cosa significa commemorare? La tradizione ebraica ci propone una chiara indicazione anche riguardo a questo tema. Commemorare è fare, ecco il suo insegnamento. Ricordarsi di qualcuno non equivale a commemorarlo. La commemorazione dei morti costituisce la base dell’agire. Il ricordare è importante, ma non sufficiente. Ci si chiede quale fosse il senso di quello che è successo durante la Seconda guerra mondiale. La Shoah ebbe un senso? [...] La questione è stata importante anche per Etty Hillesum, che intendeva essere la cronista del suo tempo e, in due lettere, ha descritto le vicende del campo di Westerbork in maniera così penetrante da imprimere indelebilmente nella memoria dei lettori il passo in cui descrive la partenza per Auschwitz di un convoglio, lo stesso convoglio che due settimane più tardi deporterà in quel campo di sterminio anche lei e la sua famiglia.Ma c’è di più. Emerge, dal diario, quanto Etty Hillesum avesse a cuore le generazioni future che, nel costruire il proprio avvenire, avrebbero dovuto trarre profitto dalle sue esperienze e da quelle degli altri ebrei perseguitati in maniera da non dover ricominciare da zero. Sarebbe stato perciò necessario sviluppare un pensiero nuovo, sostenne la Hillesum. Noi che ci troviamo qui apparteniamo in gran parte a una generazione successiva e dobbiamo chiederci se quelle nuove concezioni siano state elaborate. O non c’è purtroppo dell’altro, per esempio il ritorno di qualche vecchia idea, quando notiamo che gli ebrei tornano a essere vittime dell’antisemitismo?
La commemorazione dei morti racchiude in sé l’agire. Ciò significa che dobbiamo stare in guardia e osservare quel che succede nel mondo. Ci sono luoghi nei quali alcuni gruppi di persone vengono emarginati? Luoghi nei quali si predica l’odio? Quale alternativa è possibile contrapporre al pensiero schematico che intende dividere il mondo tra amici e nemici? E qui, nel Teatro Olandese, ci sentiamo incalzati in particolare da una domanda: come possiamo combattere in modo efficace il recrudescente antisemitismo? La risposta sta nell’atto stesso del commemorare, ed è per questo che siamo venuti qui. Il nostro ricordare i morti implica che stiamo facendo quanto è necessario per onorare la loro memoria. E implica inoltre che dobbiamo continuare a lottare contro il male che ne ha provocato la distruzione. La loro memoria diventerà così, per noi, una benedizione.(Traduzione di Gerrit Van Oord)
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