giovedì 28 settembre 2017
Goffredo Fofi rilegge quello spettacolo tipicamente partenopeo che oggi è uscito di scena: sciolte le compagnie storiche che l’avevano animato
La “sceneggiata” al capolinea
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C’è un rabdomante di storie e di culture, di questo nostro Paese, che da decenni gira con la sua gerla ricolma di esperienze fatte sul campo (specie nelle periferie) e che con la sua lanterna sa illuminare anche le zone d’ombra - sempre più vaste - di questo tempo assai critico. Stiamo parlando del più saggio tra i “creattivi popolari” (non è un refuso: trattasi di instancabile animatore culturale, fondatore di case editrici e riviste, da “Lo Straniero” all’ultima creatura “Gli Asini”) Goffredo Fofi. Come un Diogene, partendo dalla francescana Gubbio molto tempo fa è sceso a Napoli, «primo approccio intorno al 1957», esplorando in ogni anfratto quella che per Benedetto Croce è, e probabilmente rimane, «un paradiso popolato da diavoli». Napoli è per antonomasia «città teatro» (il corso universitario di Stefano De Matteis, editore dell’Ancora del Mediterraneo, l’ha indagata a fondo come pochi altri). E potrà capitare qualsiasi sisma, naturale o umano, ma questo sipario che si alza e si abbassa quotidianamente sotto il Vesuvio, continuerà a produrre «Cultura».

Una di queste forme culturali, entrata in crisi alla metà degli anni ’70 e ormai caduta nell’oblio da un pezzo, è la «Sceneggiata». E pertanto, come recita il titolo del saggio di Fofi, il sipario napoletano è anche quello de Il paese della sceneggiata (Medusa. Pagine 98. Euro 9,50). Nella capitale mondiale dell’arte d’arrangiarsi, questo genere di teatro popolare pare sia nato all’indomani della disfatta di Caporetto, e l’obiettivo artistico, ancor prima che sociale, era fondere il genere musicale classico (canzone popolare) con le rappresentazioni teatrali che avevano già i loro epigoni in Raffaele Viviani, Scarpetta e poi Eduardo, Peppino e Titina De Filippo). La sceneggiata napoletana nobilitava l’antesignano “tormentone” canoro: il brano più cantato nel vicolo - nei bassi - , tipo il Don Ciccillo, assumeva il carattere della colonna sonora, dava il titolo alla rappresentazione e in- torno ad esso si costruiva una trama, un testo in prosa. Questo spettacolo si avvaleva di attori, cantanti, ballerini e comparse prese dal popolo. Un “neorealismo” in salsa partenopea che aveva anche una funzione speculare: creare una nuova forma di spettacolo per aggirare il fardello delle tasse imposte del governo italiano sui varietà che, con le compagnie di giro, andavano in scena da prima della Grande Guerra. Dopo Caporetto le vessazioni fiscali fecero aguzzare l’ingegno napoletano che così creò una forma artistica autarchica ed esentasse, la sceneggiata appunto. Piccole e grandi opere, da non confondere con il genere operetta, che potevano contare su un vasto e caloroso pubblico in platea. Pubblico che era al tempo stesso spettatore pagante ma anche chiamato in causa come “attore non protagonista”. Tutti ingredienti gustosi come «pummarola ’ncoppa a pizza», serviti nella lunga stagione di successi clamorosi della sceneggiata. Questo accadeva nel periodo della miseria e della nobiltà vera, del sogno milionario di un popolo invece tristemente costretto a migrare («E nce ne costa lacreme st’America a nuje Napulitane! »).

Era il tempo in cui era evidente il «conflitto campagna-città e il disagio del sottoproletariato urbano che tentava di sollevarsi verso una precaria piccolissima borghesia, o di una piccolissima borghesia che sempre temeva di ricadere, per qualche giro di sorte, nella condizione del sottoproletariato». È lo scenario descritto da Fofi. Quel sottoproletariato che fino alla fine ha sostenuto e affollato i teatri stabili di Porta Capuana e della Ferrovia. «Ultimi a chiudere – ricorda Fofi – il Teatro 2000 e quel Trianon che già aveva, si potrebbe dire, un “piede in città” per la sua collocazione meno periferica, alle porte di Forcella». Le tavole lignee di questi palcoscenici hanno assistito al dominio - per mezzo secolo - della coppia assai inflazionata Cafiero e Fumo. Premiata ditta entrata perfino nel linguaggio corrente del popolo napoletano: «Compagnia ca fete e fuma», era sinonimo, fino agli anni Sessanta, di «bande di balordi, malfidati », accezione estendibile anche alla vituperata e al tempo stesso - sempre - omaggiata classe politica. Espressione di una borghesia che assumeva le fattezze della finzione, della maschera «caricaturale». Il pubblico si esalta e si spella le mani quanto più riconosce e si riconosce nel soggetto e la storia “sceneggiata”. Lo sguardo e la morale nella sua forma classica arriva sempre dalla città mentre la campagna che rivendica i suoi diritti vive in uno stato di sudditanza. Ma dal celeberrimo Zappatore fino a Mamma cafona subentra la denuncia di una città malata per colpa della piccola e meschina borghesia. Di contro l’esaltazione di una «sanità campestre» con i contadini che entrano a Napoli non per divertimento ma per «travajare », per interesse economico. Ma con la sceneggiata anche i «cafoni» (da «cà fune», coloro che si reggono i calzoni con lo spago) hanno diritto a un posto riservato in platea, per lo spettacolo delle 11 e delle 13 o al massimo per una pomeridiana. La recita serale era esclusiva dello spettatore cittadino e dei quartieri più vicini alle sale teatrali.

Tutta questa impalcatura cristallizzata, fatta di tempi, ruoli, modalità sceniche e musicali più pubblico praticamente «fisso», è rimasta in piedi fino al 1976: anno del boom universitario e dell’occupazione di quei vecchi teatri ed ex regni della sceneggiata. Questo per Fofi è il tempo del «decadimento» o della «trasformazione ». Vana è stata la resistenza degli ultimi baluardi: Beniamino Maggio o il capococomico «più fedele», Pino Mauro. Impossibile, anche per l’eclettismo di Nino D’Angelo, raccogliere la presunta eredità di Mario Merola. La sceneggiata classica muore definitivamente con la “deportazione” del sottoproletariato dal centro storico di Napoli alle aree periferiche (Scampia per tutte) controllate da belve umane e disseminate di ecomostri architettonici che con il loro degrado hanno demolito parte del patrimonio derivante dalla grande tradizione napoletana. Ma la «città teatro» non si arrende e si rigenera continuamente. Lei cambia abiti, scenografie e personaggi e nonostante le annose piaghe sociali non muore. La sceneggiata invece, sentenzia Fofi: «è morta. Resta il ricordo di una corrispondenza tra un pubblico carico di problemi , ma umanamente vario e bello per sensibilità ed emozioni comprensibili o condivisibili, e un teatro che gli apparteneva e che sapeva ascoltarlo e interpretarlo». Eppure, nel vicolo di Sanità o del Mercato, qualcuno accenna ancora: «Felicissima sera, a tutte sti signure ’ncruvattate e a chesta cummitiva accussí allèra...».

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