martedì 16 luglio 2013
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Il 17 luglio 1943 una squadriglia di caccia alleati sorvolava Roma. Dal cielo piovevano migliaia di volantini invitanti la popolazione a stare lontani dagli obiettivi militari (aeroporti, ferrovie). Fino ad allora la capitale, ma anche Firenze e Venezia, non aveva conosciuto incursioni aeree. Milano, Torino, Genova e numerosi centri avevano invece subito continui bombardamenti con decine e centinaia di morti e feriti, distruzione di case e monumenti (a Milano era stato colpito anche il duomo). La situazione si era aggravata dopo il 10 luglio, quando le truppe angloamericane erano sbarcate in Sicilia e si preparavano a risalire la penisola per giungere a Roma, mentre dalla Germania affluivano in numero crescente le divisioni corazzate tedesche. I bombardamenti massicci nel nostro Paese si sarebbero intensificati sempre più. Non solo nel Nord industrializzato ma anche nel Centro-Sud, compresa Roma, anche se la capitale era punto di riferimento e di richiamo per l’intera cristianità. Gli angloamericani consideravano però l’Italia il “ventre molle” dell’alleanza italo-tedesca e anche la capitale non doveva essere risparmiata. A Londra si era persuasi che gli attacchi, specie contro la capitale, avrebbero fatto crollare il morale degli italiani, sempre più stanchi della guerra, accelerando così la fine del conflitto.Gli Alleati ben sapevano degli incontri, dei contatti e anche delle pressioni di non pochi gerarchi fascisti sul re perché si arrivasse alla sostituzione di Mussolini. Incontri e contatti che il Vaticano non ignorava. I bombardamenti erano un elemento essenziale in questa strategia politica e militare. «Stiamo per invadere un Paese ricco di storia, di cultura, di arte come pochi altri. Ma se la morte di un bellissimo monumento può significare la salvezza di un solo nostro militare, ebbene si distrugga quel bellissimo monumento», aveva affermato con rudezza il generale Eisenhower. Cadevano così le speranze che, dall’inizio della guerra, avevano spinto la Santa Sede a operare per via diplomatica con l’Italia, con gli inglesi e poi con gli americani per ottenere il riconoscimento di Roma come città aperta e quindi al riparo di eventuali bombardamenti e azioni militari. L’impegno del Vaticano era diventato più pressante quando ormai le sorti della guerra sembravano segnate per il nostro Paese con angloamericani e tedeschi padroni del nostro territorio. Per essere città aperta occorreva però sia il consenso delle nazioni belligeranti sia lo spostamento effettivo dalla capitale, del quartiere generale militare e anche dello stesso governo. Ma in una conversazione privata del maggio 1943, Galeazzo Ciano, da febbraio ambasciatore presso la Santa Sede, dichiarava al cardinale Maglione, segretario di Stato, che «Mussolini non aveva alcuna intenzione di andarsene da Roma».In questo scenario di una Roma nuda, stremata, indifesa, alle 11,30 del 19 luglio una vera e propria tempesta di fuoco si abbatteva per più ore sulla capitale colpendo non obiettivi militari ma vasti quartieri popolari. «Un quadro di desolazione e di rovina», lo definiva in una sua lunga cronaca sulla “Stampa” lo scrittore Pier Angelo Soldini. Subito dopo la conclusione del bombardamento, papa Pacelli, con un ristretto numero di collaboratori (tra i quali Montini), si portava immediatamente «tra i fedeli della sua diocesi colpita dall’incursione aerea», come avrebbe scritto l’“Osservatore Romano” del 20 luglio. Era accolto da una folla immensa che riconosceva in Pio XII, unica autorità presente, il vero defensor civitatis (Mussolini era a Feltre per incontrare Hitler, il re sarebbe venuto nei giorni successivi, i gerarchi fascisti erano letteralmente spariti). Un ininterrotto bagno di folla tra i romani, che non volevano staccarsi da lui «nemmeno quando il papa – scrisse il quotidiano vaticano – riuscì a risalire nella sua vettura senza riuscire a impedire il continuo addensarsi di nuovi afflussi, sicché ad un certo punto la vettura rimase danneggiata e contorta da rendersi inservibile. Sua Santità dovette perciò discendere e non senza difficoltà recarsi a prendere posto in una piccola automobile privata e in essa avviarsi verso Porta Maggiore e raggiungere quindi il Vaticano».L’episodio con le stesse parole dell’“Osservatore Romano” si ritrova nella quarta pagina della “Stampa”, che scrive di un papa «veramente emozionato dinanzi alle rovine di quella che fu la basilica di san Lorenzo», di un Pio XII che, incurante del terreno reso impraticabile dalle rovine, si inginocchiava recitando con i presenti il De profundis e pronunciava poi brevi parole accolte col grido altissimo di «Viva l’Italia!». Mentre Vittorio Emanuele III avrebbe dichiarato a Mussolini, dopo la sua visita al quartiere distrutti, che «la gente era muta… l’ho sentita quasi ostile». Il 20 luglio Pio XII inviava una dura protesta al presidente degli Stati Uniti, Roosevelt: «Abbiamo dovuto essere testimoni della scena straziante della morte che ci viene gettata dal cielo e colpisce senza pietà case non sospettabili uccidendo donne e fanciulli». Ma intanto i giorni del regine si avviavano alla fine. Il 25 luglio il Gran consiglio avrebbe sfiduciato Mussolini. Il re affidava a Badoglio la guida del governo. Il 13 agosto un secondo bombardamento colpiva Roma. Il giorno dopo, unilateralmente, il governo italiano dichiarava la capitale città aperta.
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