sabato 16 aprile 2022
Nulla sulla terra può davvero consolare il dolore per chi abbiamo perduto. Ma nella Pasqua Cristo ci dice che saremo restituiti gli uni agli altri, per vivere insieme con il Signore
Il Risorto di Pericle Fazzini nell'Aula delle Udienze in Vaticano

Il Risorto di Pericle Fazzini nell'Aula delle Udienze in Vaticano - Ansa

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«Chi sarebbe in grado di consolarti?» (Is 51,19). Prima di interrogare Israele, Dio aveva già risposto: «Io, io sono il vostro consolatore» (Is 51,12). Dio rivendica l’esclusiva della consolazione, in nome della sua potenza creatrice. Se ebbe il potere di creare dal caos, avrà in serbo un’inimmaginabile e insperata inventiva di soluzioni, anche nel consolare il dolore per quelle separazioni che si direbbero definitive. Su questa commovente spinta biblica, con gli occhi spalancati grazie all’astronomia contemporanea (e all’intera indagine scientifica), potremmo dire: se davvero esiste uno che ha creato la nostra galassia, lunga e larga decine di anni luce, composta da miliardi di stelle; se esiste uno che plasma, riplasma e accende gli astri, coagulando nebulose dalle forme e colori mozzafiato; uno che ci incanta modellando miliardi di galassie a perdita d’occhio, alcune dai contorni degni di Giotto e Beato Angelico, altre di Picasso e Pollock; uno che ci sollecita a scoprire energie e materie oscure, forze e forme appena intuite, ma di cui nulla sappiamo ancora; se davvero esiste uno così, non saprà egli sorprenderci anche con la sua inimmaginabile, imprevedibile, insperata capacità di consolare?
Chissà quanto può consolare chi ha potuto creare le margherite, le rondini, i delfini, i cagnolini, i ciliegi, il quarzo, le nuvole e tutto quanto serve a creare le margherite, le rondini, i delfini… Alla medesima conclusione giunse l’afflitto Giobbe, dopo che Dio gli mostrò l’intera Creazione: «Comprendo che tu puoi tutto / e nessun progetto per te è impossibile» (Gb 42,2), nemmeno quello di consolare un uomo disfatto da perdite e lutti. In effetti, Giobbe fu consolato. Tuttavia, benché sazio di giorni, il saggio morì; perdette ancora (stavolta definitivamente) le ricchezze, i figli e le figlie, così come i figli e le figlie persero lui, per sempre. E se, vista la sua inimmaginabile e insperata inventiva creatrice, Dio tenesse in serbo un’altra impensabile, inattesa consolazione, un imprevedibile conforto?
Nei pressi di una città chiamata Nain, Cristo s’imbatte in un corteo funebre: viene portato alla tomba l’unico figlio di una donna già da tempo vedova. Una scena da strappare il cuore, romperlo, farlo ammalare. La morte sigilla l’abbandono di questo ragazzo senza più padre, di questa donna privata di marito e figlio. Per le Sacre Scritture l’orfano e la vedova sono l’emblema degli abbandonati. Gesù non scansa la donna, ma la «vede» e ne sente «una grande compassione». L’affetto del Signore non risuona solo a motivo della sua bontà, ma perché in lui pure vibra la corda dell’abbandono, provato sulla sua stessa pelle: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È in empatia con questa abbandonata. Rivolgendosi a lei, dice: «non piangere» (Lc 7,13). Com'è possibile chiedere una cosa simile? È quasi una violenza. Oppure esprime la sicurezza di chi sa che può. Il Signore si approssima alla bara e la tocca. Ordina al morto di svegliarsi. Il morto obbedisce. Il ragazzo si mette seduto e comincia a parlare.
Giustamente conquistati dalla sequenza impressionante e dall’efficacia delle azioni di Cristo, sorvoliamo l’ultimo suo gesto che, in realtà, è la corona e il vanto della pagina evangelica: «Egli lo restituì a sua madre» (Lc 7,14). Tutto mira a questa restituzione, quasi che Cristo si senta in debito con la donna. La restituzione è il culmine delle altre scene evangeliche di risurrezione: la figlia di Giairo è riconsegnata ai genitori (Mc 5,21-43), Lazzaro è reso alle sue sorelle (Gv 11,1-44). Così pure negli Atti degli apostoli: Tabità, risuscitata da Pietro, è ridata alla comunità di Giaffa (At 9,36-42); allo stesso modo, Paolo riconsegna agli amici un ragazzo riportato in vita (At 20,7-12).
In questi racconti la consolazione prende la forma della restituzione; certo, ancora provvisoria, una specie di anticipo di quella definitiva che verrà. Ci verrà restituito chi e quanto ritenevamo perduto, quanto abbiamo perduto, quanto ci hanno sottratto, quanto ci siamo fatti sottrarre, quanto abbiamo buttato, quanto pensavamo non ci fosse mai stato dato. Ci verrà restituito il corpo, la terra, le cose, gli altri, i luoghi e i tempi, tutto quanto ha acceso, animato, reso sensibile la nostra irripetibile anima e il nostro singolarissimo corpo. Dio prende come impegno la restituzione di quanto ci ha dato come pegno. Come? Quando? Non si sa. Ma certamente onorerà l’accordo. Cristo ci salva perché ci consola, guarendo il cuore dal senso di abbandono, causa di ogni genere di malvagità; Cristo ci consola perché ci salva: può restituire quanto è irrimediabilmente perduto, quanto e chi – anche solo per un attimo – è riuscito a consolarci in questa vita.
Con lucidità addolorata, lo scrittore Stig Dagerman ammette: «Di una cosa sono convinto: il bisogno di consolazione che l’uomo ha non può essere soddisfatto». Per qualche tempo, le effettive consolazioni provate resero sopportabili le sue ferite (l’abbandono della madre dopo i primi mesi di vita, l’uccisione del nonno e l’improvvisa malattia della nonna – gli anziani avevano preso il posto dei genitori –, la separazione dalla prima moglie…), ma non potevano restituire quanto era andato perduto né scansare la perdita delle perdite: la morte. Perciò, con grande onestà, conclude: «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso morte certa».
Del resto, nemmeno la più riuscita rielaborazione del lutto, né l’accettazione della propria morte sono capaci di restituire quanto è andato perduto. La pretesa di Cristo sta nel dichiarare che egli è capace. Egli può. Tutto l’annuncio cristiano sta o cade nella misura in cui accoglie, onora e trasmette questa pretesa come l’espressione efficace dell’inimmaginabile, sorprendente, insperata inventiva tenuta in serbo dal Creatore potente e fedele. Dalla Chiesa non ci si aspetta altro. Magari si riterrà ridicola la pretesa di Cristo (ride bene chi ride ultimo) e di chi l’annuncia, ma all’istinto del cuore di ciascuno piacerebbe fosse vera e, pur ridicolizzandola, desidera sentirla, e ne ha il diritto.
Uno dei più antichi passi del Nuovo Testamento richiede ai battezzati di «consolarsi a vicenda», rammentandosi reciprocamente la risurrezione dei morti (1Ts 4.13-14.17-18). Saremo restituiti gli uni agli altri, per vivere insieme con il Signore. Niente di meno. Ecco, nella Pasqua la Chiesa celebra Cristo, il primo a cui è stato restituito definitivamente il corpo; l’unico che sta desiderando con tutte le forze che gli vengano restituiti tutti e tutto. Realizzando la toccante, maestosa scultura per l’Aula Paolo VI, Pericle Fazzini, l’aveva colto al volo: il corpo sontuoso del Risorto mantiene la faccia rivolta alla terra, piena di commozione. E sarà così fino a che la carne della sua carne e l’osso delle sue ossa sarà affamata, assetata, nuda, malata, senza casa, prigioniera, afflitta, offesa, peccatrice, sepolta. Sarà così, fino a che gli uomini e le donne, le margherite, le rondini, i delfini, i cagnolini, i ciliegi, il quarzo, le nuvole… non gli verranno restituiti.

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