mercoledì 19 marzo 2014
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Il grande critico letterario Ezio Raimondi è scomparso il 18 marzo a Bologna all’età di 90 anni. Ora la sua camminata ha u­na sosta. Ezio Raimondi, infaticabile camminatore delle letterature, riposa. Ma sono certo che in quel luogo dell’oltretempo do­ve ritmo e danza e quiete sono finalmente uno, lui, il suo passo, le voci degli scrittori e dei poeti nella sua voce porteranno un passo, un si­lenzio, una meraviglia in più. Lo abbia­mo incontrato noi tanti suoi studenti mentre in fondo all’aula di Bologna camminava e conversava con noi e con­temporaneamente con Borges o Tasso, con Manzoni (quel suo Manzoni strap­pato alle scontate cerimonie) o con Bro­ch o con Dante. Nutriva la nostra me­raviglia, la nostra fragile curiosità. Fa­ceva della letteratura il teatro di ombre e di volti e di parole in cui mettere la no­stra vita a rischio, e a confronto. Camminatore senza binari rigidi, utiliz­zava pezzi di sentiero aperti dalla criti­ca rabdomantica di un Serra o dalle sin­tesi dei critici americani. Mai sottomise la sua libertà a un metodo che non fos­se la conversazione e l’ascolto recipro­co delle parti anche lontane, degli auto­ri anche discordi. Non voleva chiudere nessuna opera in una teoria o in uno schema. Voleva che parlasse con te e vi­ceversa. Non gliene saremo mai grati ab­bastanza, in questa epoca di metodolo­gie che non salvano mai la vi­ta. Non gli saremo mai grati abbastanza di a­verci fatto vedere a- nimato e vivo quel teatro di parole. Uo­mo che veniva dal popolino basso di u­na Bologna che tirava avanti grazie ai la­vori della madre domestica presso cer­ti signori (era nato a Lizzano in Belve­dere il 22 marzo 1924), il ragazzino Rai­mondi diede i segni di una prodigiosa at­titudine a imparare. E questa attitudine lo ha accompagnato fino alla fine, stu­pendoci ogni volta che lo si trovava più avanti, più curioso, più fervido. La sua camminata è stata lunga, vasti i giri e le ricognizioni che ha compiuto. I suoi vo­lumi di studi sono lì a testimoniarlo. Dal­la filologia alla letteratura comparata, ai fondi che hanno cambiato per sempre la percezione di certe opere o parti di quelle. Basti pensare ai Promessi sposi o al Purgatorio di Dante. E la generosità del suo impegno lo testimonia anche la folta schiera di coloro che, pur seguen­do percorsi diversi, gli sono debitori. E io tra questi. Con lui mi ha legato una strana lunga amicizia, iniziata con una impegnativa tesi, in anni in cui gli chie­devo di accompagnare certe iniziative di approfondimento in Università, ne­gli incontri con scrittori – memorabile uno con Testori, o quello con Luzi durante il quale nacque l’idea di dar vita all’unico Centro di poesia contemporanea attivo in una università i­taliana, da lui presiedu­to fino a oggi. Scelsi – lui capii subito – di non cercare la carriera ac­cademica. Accompa­gnò la mia poesia viag­giatrice e vitale con at­tenzione e con una pun­tuale nota scritta per un libro. Mi incoraggiò sem­pre e sostenne, pur cono­scendo la mia natura brada di poeta insofferente a ri­tuali accademici. Lui stesso finì quella sua prestigiosissi­ma carriera accademica in modo ama­reggiato e deluso. Quella che lo congedò senza nemmeno troppo riguardo non e­ra l’università che aveva sognato e che a­veva praticato per decenni con gli stu­denti. Troppe meschinità e pavoneggia­menti, troppa ideologia l’hanno inqui­nata e resa esausta. Nelle sue lunghe cam­minate – quelle che fa­ceva a lezione ma an­che per via, facendosi accompagnare da un assistente o dall’ultimo curioso degli studenti – c’è un emblema. La letteratura sottratta alla natura di cam­mino, di viaggio, di avventura cono­scitiva profonda e drammatica, si irrigidisce in culturalismo sterile, in serbatoio ideologico, o in passa­tempo per signorine.  La statura dello studioso in Rai­mondi era pari alla inquietudine dell’uomo. Il viaggio in cui ci ha introdotto era il viaggio del suo spirito, non solo il suo tempera­tissimo e prodigioso mestiere. Una inquietudine espressa in modo pudico, senza clamore. Ma vivacissima. Quando gli pro­posi di fare un libro di conver­sazioni insieme, di conversazio­ni non solo letterarie ma sulla vita, e lui accettò destando più di qualche scalpore, lo volle intito­lare La speranza contesa (l’edi­tore fu Guaraldi). Fu uomo di fede, senza fronzoli. Le conversazioni che per vent’an­ni quasi settimanalmente si face­vano furono per me ricche di sug­gerimenti e di traiettorie, e credo per lui occasione fuori dai vincoli di debiti accademici per mettere a fuoco certe questioni insieme. Ricordo per esempio la sua curiosità per una scrittrice come Flannery O’Connor di cui volle leggere certi libri che gli regalai. O la instanca­bile forza con cui mi portava a conside­rare le “Osservazioni” di Manzoni.  Si dice di solito quando se ne va una fi­gura così imponente che lascia un vuo­to. Non solo negli affetti della figlia e del nipote e di coloro che lo hanno amato. Certo Raimondi lascia uno spazio che non è colmabile. Di cavalli di razza così ne nascono rara­mente, e nella critica letteraria – pratica peraltro oggi ampia­mente in crisi e da reinventare – di certo sono rarissimi. Ma lui lascia un pieno, ver­rebbe da dire. Lascia non solo scaffali pie­ni di studi e di sco­perte e di preveggen­ze – fu primo a com­prendere l’importan­za di un Bachtin o a volere tradotti da il Mulino altri studi fon­damentali come quelli di Freccero – ma lascia un teatro vivo, una certa anima­zione dietro di sé. Molti professori di li­ceo, molti giovani e meno giovani scrit­tori che hanno avuto la fortuna di ascol­tarlo, la pazienza di leggerlo hanno di certo ereditato la letteratura come un “pieno” non come un “vuoto”. Intendo un teatro dove va in scena non una ma­schera, ma il volto sempre ferito e sem­pre misteriosamente glorioso dell’uomo. Non a caso, fu Manzoni uno dei suoi grandi autori e forse quello con cui prin­cipalmente sentiva di dover portare in discussione certe acquisizioni della co­siddetta modernità oltre che le ricchez­ze ctonie e sublimi della lingua e del suo mutamento. Le pagine dedicate al gran romanzo, in prospettiva europea e in­ternazionale, e quelle dedicate a La co­lonna infame danno il senso di un con­fronto fertilissimo e attuale. La sua cam­minata ora ha una sosta. Il Dio dei vian­danti e dei pellegrini sa riconoscere il passo dei suoi, e sa farlo sconfinare in u­na nuova luce.Nel 2012 il “Bonura” di Avvenire Il 10 maggio 2012, all’interno del Salone del Libro di Torino, “Avvenire” gli aveva consegnato il Premio Giuseppe Bonura per la critica militante, giunto alla terza edizione. Ezio Raimondi era stato, infatti, capace di unire la ricerca filologica e documentaria con la sperimentazione dei più moderni metodi interpretativi. Professore emerito all’Università di Bologna, Raimondi fu condirettore della rivista “Convivium” e di “Lingua e stile”, direttore dell’Archivio Umanistico Rinascimentale di Bologna e di “Intersezioni”. Lunghissima la sua bibliografia critica, dal primo saggio su Codro e l’Umanesimo a Bologna (1950) a Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano (1961), Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca (1970), Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi (1974), Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime (1985), L’etica del lettore (2007). Tra le sue opere più recenti si ricorda Un teatro delle idee. Ragione e immaginazione dal Rinascimento al Romanticismo (2011).
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