domenica 18 aprile 2021
La popolarità del Canto V dell'Inferno si deve anche a come Alighieri si rapporta ai due amanti fedifraghi, quasi ne invidiasse la sorte: uniti per sempre, seppure nella dannazione
Ary Scheffer, “Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca”, 1835, particolare / WikiCommons

Ary Scheffer, “Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca”, 1835, particolare / WikiCommons

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Il canto V dell’Inferno è il più celebre e più commentato di tutta la Commedia: il solo Boccaccio vi dedica (tra Esposizione litterale ed Esposizione allegorica) ben 64 pagine del suo commento (le pp. 280-344 dell’edizione Padoan citata qui a fianco). L’Inferno come luogo di dannazione stenta, per arte e per amore, a impossessarsi del poema. Nel canto IV campeggia il «nobile castello» degli «spiriti magni»: Elettra, Ettore, Enea, Camilla, Marzia, Socrate, Platone, Diogene, Anassagora, Talete, Eraclito, Dioscoride, Orfeo, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galeno, Averroè «che ’l gran comento feo»; e soprattutto la «bella scola» dei grandi poeti con i quali Dante s’accompagna, «sesto tra cotanto senno»: Omero, «poeta sovrano», Orazio, Ovidio, Lucano e lo stesso Virgilio. Siamo ancora nei chiarori della fama che si prolungano anche nel V canto, ove l’episodio d’amore di Paolo e Francesca è comprensibile solo come imitazione del modello di Ginevra e Lancillotto nel Lancelot du Lac (romanzo francese del ciclo della Tavola Rotonda): «Noi leggiavamo un giorno per diletto /di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto», in una sorta di contemplazione dell’idolo che comporta l’imitazione ad litteram. È un peccare non per mancanza, ma per eccesso d’amore, che però è all’umana creatura naturale: «Né creator né creatura mai / - cominciò el - figliuol, fu sanza amore » (Purg., XVII, 91-92); solo si pecca «o per troppo o per poco di vigore » (ivi, v. 96). E tali saranno poi le conclusioni del Boccaccio: «dico che, per ciò che il peccato della carne è naturale, quantunque abominevole e dannevole sia e cagione di molti mali, nondimeno, per la oportunità di quello e perché pur talvolta se n’aumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Idio; e per questo nel secondo cerchio dello ’nferno, il quale è più dal centro della terra che alcuno altro rimoto e più vicino a Dio, vuole l’autore questo peccato esser punito».

In effetti, il loro amore sembra appartenere all’ordo naturae: il canto sviluppa infatti un affascinante parallelismo: leggiamo al v. 4o: «E come li stornei ne portan l’ali », incipit di una triplice comparazione ornitologica (seguono: «E come i gru van cantando lor lai», v. 46, e «Quali colombe dal disio chiamate», v. 82) che viene a formare una perfetta simmetria con la triplice invocazione d’amore che ritma la confessione di Francesca: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», v. 100; «Amor ch’a nullo amato amar perdona», v.103; «Amor condusse noi ad una morte», v. 106). Borges, in modo analogo, coglie l’estraneità di Francesca all’ordo damnationis: unica, tra le anime infere, a dichiarar a Dante il proprio anelito a pregar per lui, se le fosse concesso: «Lì ci sono […] uomini illustri. Dante ne vede due che non conosce, meno illustri e che appartengono al mondo contemporaneo: Paolo e Francesca. Sa come sono morti i due adulteri, li chiama ed essi accorrono. Dante ci dice: 'Quali colombe dal disio chiamate'. Siamo di fronte a due reprobi, e Dante li paragona a due colombe chiamate dal desiderio, perché la sensualità deve essere la parte essenziale della scena. Si avvicinano a lui e Francesca, che è l’unica a parlare […], lo ringrazia di averli chiamati e dice queste patetiche parole: 'Se fosse amico il re de l’universo, [dice 're de l’universo' non potendo dire Dio essendo questo nome interdetto all’Inferno e in Purgatorio] / noi pregheremmo lui per la tua pace / poi c’hai pietà del nostro mal perverso' (vv. 91-93).

Francesca racconta la sua storia e lo fa due volte. La prima, la racconta con discrezione, pur sottolineando di essere ancora innamorata di Paolo. Il pentimento è vietato all’Inferno, sa di aver peccato e segue fedele il suo peccato, dal che le viene una grandezza eroica» ( La Divina Commedia, in Sette notti, cit., p. 21). Ma Borges che suggerisce, altrove, paradossalmente, che la Commedia sia stata scritta solo perché Dante possa ritrovare in sogno colei, Beatrice, che in vita non poté mai stringere a sé ( El encuentro en un sueño, da Nueve ensayos dantescos, 1982), insinua anche una ragione supplementare a quel finale venir meno di Dan- te di fronte ai due amanti: «C’è dell’altro che Dante non dice, e che aleggia in tutto l’episodio e forse ne costituisce la forza. Con infinita pietà, Dante ci rivela il destino dei due amanti, e sentiamo che egli invidia questo destino. Paolo e Francesca sono all’Inferno, egli si salverà, ma loro si sono amati ed egli non è riuscito ad avere l’amore della donna che ama, Beatrice. […] Invece questi due reprobi sono uniti, non possono parlarsi, girano nell’ 'aere perso' [v.89] senza speranza alcuna, senza neppure, ci dice Dante, la speranza che le loro sofferenze cessino, ma restano uniti. Francesca dice noi: parla per tutti e due, un altro modo, questo, di stare uniti. Sono uniti per l’eternità, condividono l’Inferno e ciò agli occhi di Dante deve essere stato una specie di Paradiso. L’emozione, sappiamo, sopraffà Dante, che cade come un corpo morto. Ognuno si definisce per sempre in un solo istante della sua vita, il momento in cui l’uomo si incontra per sempre con se stesso» ( La Divina Commedia). E non sarà forse così, e proprio nel «fiore / di tanta plenitudine volante » ( Paradiso, XXXI, 19-20), che Dante, ancora una volta, perderà la sua Beatrice?: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose. / […] / E 'Ov’è ella?' sùbito diss’io. / Ond’elli: 'A terminar lo tuo disiro / mosse Beatrice me del loco mio'» ( Paradiso, XXXI, 58-66). A terminar lo tuo disiro!: nella più pura lontananza, e prima ancora del compimento: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana» ( Paradiso, XXXI, 91-93; e cfr. Borges, La última sonrisa de Beatriz, in Nueve ensayos dantescos, cit.). E qui invece, e per sempre: «questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante » (vv. 135-136). In fondo, sì, tutta la Commedia potrebbe essere pensata come un’infinita palinodia di quel solo verso, nella vita di Dante incompiuto: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona » (v. 103).

Bene lo intese, ancora una volta, Jorge Luis Borges che ha riscritto quell’incontro in una delle più belle liriche del mito di Francesca e di tutto il XX secolo: «Lasciano in un canto il libro, perché sanno / che sono i personaggi di quel libro. / (Lo saranno di un altro, il più grande, / ma non se ne curano). / Sono, adesso, Paolo e Francesca, / e non due amici che condividono / il sapore d’una favola. / Si guardano meravigliati, senza crederlo. / Le loro mani non si sfiorano. / Hanno trovato l’unico tesoro, / hanno scoperto l’altro. / Non stanno tradendo Malatesta, / poiché il tradire suppone un terzo / ma essi, ora, sono unici al mondo. / Sono Paolo e Francesca / e insieme la regina e il suo amante / e tutti gli amanti che sono vissuti / dopo il primo Adamo e la sua Eva / nei pascoli del Paradiso. / Un libro, un sogno loro rivela / ch’essi sono le forme di un sogno che fu sognato / in terra di Bretagna. / Un altro libro concederà agli uomini, / sogni anch’essi, / di sognarli» ( J.L. Borges, Inferno, V, 29, da La cifra, 1981).

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