mercoledì 2 luglio 2025
La questione del “luogo altro” è centrale e non senza rischi. Si assiste alla creazione di spazi immersivi e che intendono essere spirituali. Ma il metacielo fraintende la mistica con lo stupore
Un'illustrazione generata attraverso la IA

Un'illustrazione generata attraverso la IA - Freepik

COMMENTA E CONDIVIDI

Nato con gli esseri umani, l’esercizio della relazione tra il luogo sacro e chi lo frequenta ha testato nel tempo le modalità più varie di teatralizzazione nel tentativo di rendere suggestiva, coinvolgente e quindi convincente l’esperienza del mistero individuato di volta in volta nel fulmine o in qualche entità antropomorfa dai poteri sovrannaturali. Una sfida inesauribile e ambigua per ingegno artistico ed esercizio speculativo dar vita all’oratorio metafisico di forme e gesti, intermediario esclusivo innestato in tradizioni peculiari a luoghi, agglomerati sociali e popolazioni.

Oggi, dopo millenni di esperienze ed elaborazioni filosofico-teologiche in coabitazione promiscua con derive devozionali di ogni tipo, non di rado valvole di scarico per dinamiche socio-psicologiche antropologiche inquietanti come sacrifici umani e ordalìe, credo sia necessario chiedersi a cosa abbia portato tutto questo lavorìo costante di mediazione con la sacralità. A una familiarità più stringente con le ragioni arcane dell’essere o a una moltiplicazione di pratiche allegoriche utili più che altro ad arricchire gli album delle tradizioni di gruppi, società e la storia dell’arte a vario titolo?

Difficile, forse impossibile una risposta. Il nostro rapporto con il fenomeno (grossolanamente ogni fatto dell’esistere compreso l’esistere stesso) è sempre necessariamente indiretto, ridefinito istante dopo istante dal tandem controverso e instabile di percezione e memoria che inevitabilmente reinterpreta fino a snaturarlo il senso stesso di una oggettività assoluta inconciliabile con l’essere esseri umani.

Ciò non toglie che si possano fare alcune considerazioni e avanzare perplessità come interrogazione metodologica sulle priorità che il rendere simbolico contiene e veicolare. Per dirne una, mi chiedo quanto la intensità della suggestione sia adatta a sostenere il ruolo di veicolo sincero per una qualunque fede non piegata a fini strumentali e quanto invece possa indurre emozioni fugaci e inaffidabili, suggestioni ingannevoli incapaci di sopravvivere al calo di tensione che il tornare nel mondo esterno porta con sé, una volta usciti dalla comfort zone del guscio protetto pensato come proscenio del divino. Non fa differenza che si tratti della sontuosa cattedrale di San Vito a Praga o della piramide dedicata a Kukulkán, o ancora il meraviglioso Taj Mahal.

Il luogo sacro è luogo altro per definizione. La sua natura deve trovare necessariamente una esplicitazione nel simbolo e nelle forme rituali se non si vuol rischiare la sterile mutazione della esperienza sensoriale in astrazione ideologica.

Una esplicitazione fisica, il verbo è corpo, non didascalia, la parola nella sua essenza è carne, una carne policostituita e multiforme, non la ortografia del trascendente for dummies, peraltro estremamente diffusa anche oggi.

L’apparente contraddizione della premessa con l’assunto è una prima necessaria presa di coscienza. L’enigma intrinseco alla nozione stessa di sacro è per sua natura indecifrabile e approcciabile unicamente per ipotesi. Il luogo sacro è luogo altro ma al tempo stesso è contiguità e coincidenza con il mondo. Il passaggio tra l’una e l’altra istanza (dal sacro al mondo e viceversa) è il diaframma immaginario di una divisione inesistente, utile a gestire le nostre limitate nozioni di realtà. Ci si muove ma si rimane dove si è. Comunque lo si intenda il luogo del sacro che punta sulla eccezionalità e lo straordinario, in definitiva estraneo per quanto affascinante, mostra oggi i suoi grandi limiti e chiede un superamento del modo di concepirlo. Bisogna intendersi, l’essere alieno alla normalità ne rinforza spettacolarizzazione e attrattiva, fascinazioni estremamente vendibili per una accezione del sacro come il genio della lampada. La forza della rappresentazione potenziata da un certo modo intendere l’arte ha prodotto capolavori soprendenti consolidando una visione fortemente a rischio di sollecitare forme squisitamente idolatriche, declinando il ruolo simbolico alla fattispecie del manufatto nel cui prisma disassato il trasporto contemplativo devia verso i lidi pragmatici del primato estetico, in volume e dettaglio.

Posto che lo si voglia, e rinunciando a facili quanto insignificanti consensi, è possibile e auspicabile percorrere una strada diversa?

Il luogo sacro dovrebbe restituire una coscienza nuova ma se questa, attraverso la sua architettura formale sancisce uno iato con il mondo che la genera suggerendo la esistenza di luoghi e contesti privilegiati, rischia di naufragare nell’assolvimento di funzioni che ne celebrano l’apparenza come sostanza.

Senza il sacro il mondo non si sostiene e il sacro senza il mondo equivale a una testa priva del corpo. Non si tratta di contestare o sostenere il lavoro fatto fino a ora sui simboli, che peraltro presenta eccezioni di rilievo. Il simbolo è essenziale per lo scambio osmotico tra forma e intenzione che come un cavo elettrico può condurre la eventualità dell’esperienza mistica. Si tratta di valutare modalità, dosi, finalità e mezzi attraverso cui possa ispirare tensioni interiori che non facciano della meraviglia il teatro distante e spendibile nelle simonie spicciole del cannibalismo turistico n.0 e, non ultime, nelle autocelebrazioni dei potenti che parassitano da sempre ai loro fini la forza comunicativa di eclissi e similari.

Di recente si assiste a esperienze che, con molto ritardo sul percorso ampiamente frequentato e inflazionato delle implementazioni tecnologiche, rincorrono una idea di contemplazione sacra tecnologicamente eteroguidata.

Ricordo che il progetto Sphere di Las Vegas ha già toccato da tempo vette di illusione immersiva in 4D impareggiabili per qualità e dimensioni. È la nuova mecca simbolica della sacralità? Può darsi, si tratta però di una sacralità da videogame, celebrazione di un miraggio dissociato che conduce alla alienazione.

Prendiamo i viaggi ipertecnologici ad altissima risoluzione dentro i quadri di Van Gogh. Un surrogato suggestivo in forma di spettacolo interattivo che con la essenza di Van Gogh uomo, Van Gogh artista e la sua arte non ha molto a che fare, se non la eco decontestualizzata e venduta per approfondimento. Il dettaglio pornografico sulle pennellate dell’olandese è un feticcio piuttosto banale che sostituisce il significato con la sua topografia.

Per la stessa ragione le immersioni nel cielo di led con cui si vorrebbe incentivare la catarsi istantanea del pellegrino ai fini del cammino interiore sono una cantonata metodologica oltre che di sostanza. Il metacielo tutto effetti e scintillii offre un fraintendimento di percezione in stile balera anni Settanta che allo stupore (posto che ancora qualcuno si stupisca di fronte a questo genere di cose) delega il ruolo che sarebbe proprio della riflessione mistica. La necessità di una immersione veicolata da effetti speciali è una illusione del tutto improduttiva ai fini dello spirito. Incapacità di prendere atto che siamo già immersi nel liquido amniotico del nostro percorso su questa terra, il mistero, cui serve la discrezione potente di uno sguardo al tempo stesso umile e ambizioso che sa leggere nell’ultimo relitto delle stanche prassi quotidiane una speranza autentica, la nostra stessa esistenza, il nostro passo e il nostro respiro, fin che c’è.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI