
Primo Levi con alcune edizioni internazionali delle sue opere - Famiglia Levi
Una Olivetti, una foto e alle spalle una libreria, lo “scaffale tedesco” con le poesie di Rilke, La montagna incantata di Thomas Mann, Alfred Döblin e altri volumi, aprono Giro di posta. Primo Levi, le Germanie, l’Europa, una mostra promossa dal Centro internazionale di studi Primo Levi a Palazzo Madama, Torino, a cura di Domenico Scarpa. La mostra, che è stata inaugurata ieri e proseguirà fino al 5 maggio 2025, è realizzata con documenti in parte inediti e offre una rete di carteggi privati che soltanto oggi diventano pubblici, e raccontano l’Europa e la Germania divise, ma soprattutto mostrano per la prima volta il Primo Levi scrittore di lettere. A tessere la trama di questi carteggi, scarabocchi, testi, appunti, sono gli interlocutori tedeschi e germanofoni di Levi, ma non solo scrittori, anche lettori e lettrici, ex compagni di Lager, persino qualcuno che ad Auschwitz stava «dall’altra parte». La mostra è suddivisa in cinque sezioni, su due livelli: una striscia continua, sezione per sezione, ad altezza di lettura e nella parte alta, sui pannelli della struttura espositiva, la documentazione d’immagini di supporto: fotografie, cartine, contesto.
Nel 1955 «Palazzo Madama ospitò una rassegna sul decennale della resistenza», spiega il direttore Giovanni Carlo Federico Villa e «Levi la recensì in modo amaro, poiché non venivano fatti cenni alla deportazione. Oggi, a 80 anni dalla liberazione di Auschwitz, questa mostra è un risarcimento». Si tratta infatti di una mostra su un tema preciso, che mette insieme oggetti scritti, materializzando nella scrittura luoghi e persone, e interrogando su una domanda essenziale: che fare dell’esperienza di Auschwitz? La scommessa della mostra – spiegano gli organizzatori – è far vedere qual è stato il nocciolo di quella esperienza nello spazio e nel tempo. Levi è il fulcro, ma il suo sguardo, le sue parole, si diramano, mentre alcuni nastri colorati passano sopra le teste del pubblico, tra i pannelli, andando da un punto all’altro, come le Germania e l’Europa, collegando anche i più lontani per mentalità o geografia. Negli ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz (27 gennaio 1945 – 27 gennaio 2025), quindi, il “giro di posta” del titolo si presenta come una discussione sulla Shoah e sul suo posto in un’Europa da ricostruire dopo la guerra. E si presenta come una rete per molte ragioni: perché ci sono circuiti di posta dove una stessa lettera viene spedita a più destinatari per sollecitarli a dire la loro; perché vi si intrecciano le quattro lingue – l’italiano, il francese, l’inglese e il tedesco – adoperate da Levi, e per molte altre ragioni.
La mostra, inoltre, non si esaurirà a maggio, poiché è stata realizzata nell’ambito del progetto LeviNeT, coordinato dall’Università di Ferrara da Martina Mengoni, curatrice del volume Il carteggio con Heinz Riedt (Einaudi, pagine 472, euro 23,00), che era un tedesco diverso da quelli che Primo Levi conobbe ad Auschwitz: fu soldato nella Wehrmacht e partigiano nella Resistenza veneta; lavorò con Brecht e tradusse Goldoni, Calvino e Pinocchio; visse a Berlino Est e fuggì in Germania Ovest con la famiglia. E fu lui a tradurre in tedesco Se questo è un uomo e Storie naturali. Il progetto LeviNeT, finanziato dallo European Research Council, prevede da qui al 2027 la pubblicazione in open access (sito già attivo) delle corrispondenze “tedesche” di Levi, che coprono quasi trent’anni di storia europea e superano le 500 unità epistolari.
A questo progetto si aggiunge poi un’altra volontà, quella di restituire a questi documenti uno spazio dedicato, con un luogo fisico nella nuova Biblioteca Civica che aprirà a Torino nel 2026, per contribuire a quello che diventerà un polo culturale della città con una figura di primaria importanza. Questa volontà si inserisce nel solco di un lavoro di dialogo che Levi mantenne con i suoi lettori – come il percorso della mostra mette in evidenza – ma anche con l’impegno che lui stesso portava avanti con i giovani, raccontando la sua testimonianza nelle scuole.
Oltre a Riedt, nella mostra viene dato spazio anche a quello che per Levi era «un uomo formidabile», Hermann Langbein: nato a Vienna nel 1912, Langbein combattè contro i fascisti nella Guerra di Spagna, fece oltre sei anni di prigionia nei campi nazisti e fu poi, nel dopoguerra, tra i maggiori testimoni di Auschwitz, tra i più tenaci cacciatori di ex criminali nazisti e tra i principali promotori dei processi che li riguardavano. La sua trentennale amicizia con Primo Levi è documentata dalla corrispondenza che viene presentata per la prima volta in questa mostra, ma oltre a lui in mostra c’è, per esempio, la figura di Ferdinand Meyer – caporalmaggiore della Wehrmacht e chimico nel laboratorio di Buna-Auschwitz III, dove Levi lavorò negli ultimi mesi di prigionia –, che molti anni dopo comparirà come dottor Müller in “Vanadio”, racconto de Il sistema periodico (1975). Tra gli altri, poi, una lettera di Saba a un anno dalla pubblicazione di Se questo è un uomo: «Caro Signor Levi – scrive – adesso è come se avessi fatto personalmente l’esperienza di Auschwitz»; tuttavia, come scrive Levi a Langbein in un’altra lettera, a proposito di un capitolo di quel libro, lì «non si parla solo di sofferenza, ma anche di resistenza».