Libri, mediocrità e consenso: la letteratura è diventata un premificio?

Dai Goncourt ai Nobel contestati, passando per lo Strega: quando il riconoscimento diventa strumento legato alla politica e non al merito
July 25, 2025
Libri, mediocrità e consenso: la letteratura è diventata un premificio?
web | -
Questa riflessione è il proseguimento di un dibattito iniziato con l’elzeviro di mercoledì 23 luglio intitolato Per una letteratura migliore è meglio non dare premi? di Eugenio Giannetta, ripreso anche su Radio 3 nella puntata di Fahrenheit intitolata “La premiata ditta. La letteratura al vallo dei premi”, con ospite Massimo Onofri. Si può riascoltare QUI.
«I premi è meglio non meritarli», disse Flaiano, e un amico mi scrive: «Un premio non è un’ordalia, non è un giudizio di Dio, ma una vox populi. E quando mai il popolo si è sottratto all’incantamento di una rassicurante medietà?» Botta vale tredici Leopardi? Per la Crusca, nel 1830, sì. La prendo larga. La stolta censura del politicamente corretto purgherebbe in totale ignoranza di prospettive storiche scrittori sommi. Questi petulanti equipaggi da nave dei folli occupano posti di potere nella trista landa che sta fra cultura e esposizione mediatica. Chi teme le parole ignora la natura del male. Discorso difficile per anime belle così limitate da pensare che una goffa perifrasi sia meno offensiva di un termine che offensivo non è, è soltanto preciso. Il diavolo zoppo diventerà diversamente abile nel camminare? Nulla è puro per i puritani. Invece lo scrittore sa che tutte le parole possono suscitare stupore e innalzare oltre la mediocrità del mondo, sa che ogni parola ha un grano di ambiguità, e su congiuntura e intenzione del testo si fonda il giudizio: esile la linea che separa riuscita e scacco. Lì è il «lavoro di scrittura». Raffaele La Capria confessò: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’unità d’Italia». Questa è letteratura. In un articolo uscito su “la Repubblica” nel 1984, Storia di una dinastia dimenticata, Mario Fossati, grande firma del giornalismo sportivo, usò l’aggettivo “marmato” e basterebbe questo a dirla lunga su dove fossimo nell’anno 1984 e su dove siamo oggi: bigi risciacqui memoriali e troni dell’ego attentamente concepiti per esser letti, sì, ma senza reale guadagno, bensì con perdita, quantomeno di tempo. Che molti fra questi libri vendano e vengano premiati, non può stupire. È storia vecchia né solo italiana. Nell’autunno 1950, alle porte i grandi premi letterari francesi – Goncourt Femina Renaudot –, André Rousseaux nell’articolo Letteratura di dicembre scrisse: «La settimana dei premi letterari è un fenomeno di storia del costume della nostra epoca che si apparenta alla lotteria o al Tour de France. Emergono libri i cui rapporti con la letteratura di qualità sono così fragili da offrirsi al lettore quasi come una provocazione. La lettura dei romanzi di cui si parla in questi giorni ispira un po’ di malinconia, e molta stanchezza». E Rousseaux pronosticò i tre premiati – Paul Colin, Serge Groussard, Pierre Molaine – fra le probabili mediocrità laureate. Bernard Grasset, editore di Proust Radiguet Mauriac Cendrars Malraux, i cui autori vinsero tre volte il Goncourt, confermò: «È facile capire che un’opera di autentica qualità non può essere premiata».
Nello stesso anno, vinto lo Strega, Cesare Pavese commentò: «I libri più importanti di una generazione non vincono premi». Sì, nel 1919 le fanciulle in fiore di Proust vinsero, ma tra polemiche e insulti, contro Le croci di legno di Dorgelès; questi ammise poi che il suo nome rimaneva nella storia letteraria soltanto per il caso fortunato d’aver conteso a Proust il Goncourt. Che nel 1932 premiò I lupi di Guy Mazeline, autore oggi scordato ma allora, a 32 anni, al quarto romanzo edito dalla NRF. E su chi vinse, questo nulla? Su Viaggio al termine della notte che, quale sia il giudizio su Céline, è un capolavoro. Vogliamo ribadire che i premi nel campo dell’arte non hanno valenza critica? Basta l’elenco dei Nobel letterari per rendersene conto: una sequela di mediocrità dimenticate da tempo e, qua e là, un grande – ma non tutti i più grandi. Come dice lo scrittore Helmut Qualtinger, esistono scrittori e vincitori di premi letterari. Nel presentare la strenna del Pesce d’oro 1971, Vanni Scheiwiller sbottò: «In una buona società letteraria che ha ignorato l’ultimo romanzo di Antonio Pizzuto e bocciato ben due volte (Strega & Campiello) il grande Gadda, non potevo che rivolgermi a due scrittori morti: ‘più vivi dei vivi’». Ed erano anni che oggi, a fronte di chi senza nulla da dire però lo scrive e, peggio, lo pubblica (ancora Qualtinger: «Nulla vale il silenzio dello stupido»), ci sembrano popolati da giganti, e le polemiche trattavano idee e ideali – penso al sentenzioso suscettibile Fortini, o al rumoroso (e ipocrita) ritiro di Pasolini dallo Strega nel ’68 – e quasi mai scadevano a pubbliche miserie morali. Poi però penso a scomposte reazioni come quella di Gadda contro Moravia o, peggio, di Malerba contro l’autrice defunta di Passaggio in ombra, e mi chiedo: era discreta e spesso buona letteratura fatta da persone inserite in un tessuto sociale ove si conoscevano le regole della scrittura e della misura persino quando allo Strega si candidò, contro ogni buon gusto, la fondatrice Maria Bellonci, e si brigava – eccome se si brigava – ma con più stile, o già allora sottovento il lago dei cigni delle nostre lettere si tramutava in stagno di paperi?

© RIPRODUZIONE RISERVATA