venerdì 21 ottobre 2022
Pier Paolo Pasolini ha usato i suoi ritratti fotografici per definire la propria identità e il proprio pensiero al pari della scrittura e del cinema. Una mostra inedita a Villa Manin, nel suo Friuli
Duane Michals, Pier Paolo Pasolini a New York, 1969

Duane Michals, Pier Paolo Pasolini a New York, 1969 - Duane Michals, courtesy Admira, Milano

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È il 1953 e Pier Paolo Pasolini è da tre anni a Roma, dopo la fuga da Casarsa. Lavora come insegnante, è conosciuto come poeta dialettale in friulano, si è ambientato nel milieu intellettuale della capitale, scrive molto ma non ha ancora pubblicato nulla. Eppure Herbert List e Max Scheler, due fotografi di Magnum, lo ritraggono in una serie di scatti a Trastevere. Una borgata. «Con l’immagine Pasolini anticipa Ragazzi di vita, si contestualizza nel suo futuro: sei anni dopo Henri Cartier-Bresson lo fotografa al Mandrione. E io credo che avesse calcolato tutto», spiega Silvia Martín Gutiérrez, curatrice di “Pier Paolo Pasolini. Sotto gli occhi del mondo” in corso a Villa Manin di Passariano di Codroipo fino all’8 gennaio 2023.

Una mostra realmente inedita, poiché raccoglie 170 scatti tra le migliaia che Martín ha rintracciato, con un ciclopico lavoro di ricerca, negli archivi di tutto il mondo. Un serie di filmati inediti, provenienti dall’archivio di Cinemazero di Pordenone, ampliano lo scenario. Si va dal 1953 fino a Stoccolma il 29 e 30 ottobre 1975, pochi giorni prima della morte. In mezzo – tra grandi firme della fotografia, come Richard Avedon, Jerry Bauer, Erika Rabau, Duane Michals, Marli Shamir, onesti fotoreporter, fotografi anonimi – le tante “redazioni” del volto inconfondibile di Pasolini. Nelle periferie, in studio, sul set e ai festival, in Iran e in Marocco. Pasolini sorridente, cupo, malinconico, gioviale. Mentre si muove, mentre sta fermo. Mentre discute, mentre tace. Mentre guarda. «Pasolini non vuole farsi catturare mai da una unica prospettiva fotografica » spiega Marco Bazzocchi, che con Martín ha curato il volume della mostra (Contrasto), fondamentale per ricchezza di contenuti e approfondimenti. «Più ci sono foto di Pasolini e più è difficile dire chi era. È sempre lui ma qualcosa sfugge sempre, resta opaco: è come se avesse fatto in modo che questo corpus fotografico immenso non ne potesse definire mai una immagine univoca».

Perché Pasolini è forse l’intellettuale più fotografato del Novecento, e non solo in Italia. E non è un caso. Da studioso dell’immagine e da analista di tutto ciò che è politico, è perfettamente conscio dei meccanismi della rappresentazione e da qui fa derivare la sua capacità di offrirsi, di darsi all’obiettivo. Pasolini non ha realizzato fotografie, o se ne ha fatte non ne conosciamo. È come se ci sia un ostacolo linguistico nei confronti della fotografia. Tanto che su di essa «non ha lasciato nemmeno scritti teorici, a differenza delle forme dell’audiovisivo, come cinema e televisione, da lui invece praticate – commenta Bazzocchi – e questo nonostante la conoscesse fin da giovane. È come se Pasolini avesse scritto un discorso sulla fotografia facendosi fotografare. La fotografia serve a Pasolini, la usa strategicamente per la comunicazione e l’autopromozione. In una poesia in friulano, I mi met in posa, scrive: “Mi metto in posa. Un, due, tre via! Un poeta guarda giovane il mondo dal fondo di una fotografia. E da laggiù parla chiaro e tondo” ».

Martín riconosce nel Pasolini fotografato una dimensione autoriale: «La fotografia è un mezzo attraverso il quale Pasolini si esprime. Racconta e si racconta. E questo fino a ora non era stato preso in considerazione. Crea la sua identità, così come la crea il resto dell’opera». Lo fa scontrandosi o anche scendendo a patti con i codici narrativi, i filtri culturali, le proiezioni e le attese che il mondo ha su di lui. Martín nel volume li ricostruisce, contestualizzando ogni servizio fotografico. «Non si può disgiungere la fotografia dal momento. Prendiamo ad esempio le foto di Stoccolma, la città del Nobel, dove Pasolini va per presentare la traduzione in svedese delle Ceneri di Gramsci. Qui le persone si aspettavano il Pasolini degli anni 50 e arriva invece il Pasolini che gira Salò. Lui si racconta come un disallineato rispetto alla società italiana. E le fotografie così in effetti ce lo restituiscono: provato, stanco».

La coscienza dell’immagine che Pasolini ha di sé muove forse dalla coscienza prima del suo volto. Iconico, da subito: gli zigomi pronunciati, la mascella, le guance arse. Ed è un viso che si va delineando sempre più insieme all’erosione della disillusione e del senso di estraneità («La parola speranza – secondo la nota risposta a Enzo Biagi – è completamente cancellata dal mio vocabolario. Continuo a lottare per verità parziali, ora per ora») fino a un volto arcaico, così diverso da quello pasciuto dei colleghi intellettuali, scrittori o cineasti. Un volto che porta i segni dell’aver scelto di “gettare il corpo nella lotta”.

Ed è forse in questo senso che si capisce il valore quantitativo e qualitativo ma anche quello performativo dell’iconografia pasoliniana. Iniettandola all’interno del dibattito pubblico attraverso l’immagine, Pasolini dispiega una politica del corpo perché fa di sé un corpo politico. Una pietra di scandalo, una pietra di inciampo. Gettare il corpo nella lotta. Questa propensione oblativa Pasolini l’aveva accettata usque ad mortem? C’è un paradigma cristologico nell’azione pasoliniana? O forse un transfert che Fabio Mauri aveva esplicitato nella performance di Bologna, con il Vangelo proiettato sul corpo del regista, a rivelare «fisicamente – scriveva l’artista – la nascita del “segno intellettuale”, “dentro” il corpo dell’autore».

Più ancora che i suoi romanzi e la sua poesia, più ancora che il suo cinema – oggi meno visto di un tempo – in alcuni casi invecchiati male a causa della lingua dell’ideologia, il suo corpo non solo resiste al tempo, anzi matura con esso, si fortifica e riesce persino a evitare che la sua immagine se ne stacchi. Il volto, il corpo di Pasolini è iconico ma resiste alla tentazione di diventare icona. L’immagine di Pasolini è la sua eredità più forte, la sua opera più duratura, se non forse la più compiuta.

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