martedì 18 novembre 2014
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Conosciamo spesso i nomi di chi ha acceso le micce delle guerre, di chi ha firmato trattati di pace. Raramente invece quelli di coloro che si sono adoperati per far cessare il fuoco. È dunque un omaggio alla preziosissima arte della diplomazia il nuovo film del regista tedesco Volker Schlöndorff (celebre per Il tamburo di latta del 1979) che con Diplomacy – Una notte per salvare Parigi racconta a partire da un testo teatrale di Cyril Gely che cosa forse accadde nella capitale francese la notte tra il 24 e il 25 agosto del 1944. Gli alleati stanno entrando in città e poco prima dell’alba il generale tedesco Dietrich von Choltitz si prepara a eseguire gli ordini di Hitler: distruggere i principali monumenti di Parigi, dall’Opera a Place de la Concorde, dal Louvre alla cattedrale di Notre-Dame. Una mossa tatticamente inutile, dettata solo dalla stizza del Fürher di fronte alla bellezza intatta di una città sopravvissuta alla guerra a differenza della sua Berlino. Il film, interpretato dagli straordinari Niels Arestrup e André Dussollier, protagonisti anche della pièce teatrale, ipotizza che quella fatidica notte il console svedese Raoul Nordling, benché rappresentante di un Paese neutrale, si intrufolò attraverso un passaggio segreto nella stanza quartier generale di Choltiz e dopo un lungo e difficile confronto lo convinse a disobbedire agli ordini, impegnandosi a mettere la famiglia del generale al riparo e facendo promesse che non avrebbe mai potuto mantenere. Se le cose siano andate proprio così non lo sa nessuno, ma Parigi non è saltata in aria e Nordling, quando ha incontrato Choltitz a Parigi dieci anni dopo la fine della guerra, gli ha donato la medaglia che egli stesso aveva ricevuto per il contributo alla salvezza della città. Segno, secondo il regista, che tra loro qualche accordo c’era stato. «Il fatto è assolutamente vero – ci racconta Schlöndorff – anche se l’incontro non è avvenuto nella maniera in cui lo abbiamo raccontato. I due però si sono incontrati molte volte in quei giorni, anche se in presenza di un interprete. Sono rimasto affascinato da questa storia perché neppure io sapevo quanto fosse stata vicina alla catastrofe Parigi, che ho visto per la prima volta nel 1955: era la prima città non ridotta in macerie nel quale sono stato dopo la guerra e ci sono rimasto dieci anni».Ma a parte le ragioni sentimentali, quella di Diplomacy è una storia che parla della capacità degli uomini di compiere azioni straordinariamente giuste anche nei momenti più difficili. «È bello pensare che le parole di un diplomatico possano essere più forti delle armi di un generale e che la ragione possa prevalere, che anche in momenti di barbarie le persone trovino il modo di recuperare la loro umanità. Abbiamo bisogno di crederci per darci coraggio. Per questo ho dedicato il film al mio grande amico Richard Holbrooke, diplomatico americano e sottosegretario di stato responsabile degli accordi di pace di Dayton che misero fine alla guerra in Bosnia. Aveva scritto anche un libro sulle sue negoziazioni e io avevo pensato di farne un film per la Hbo, ma poi il progetto non è andato in porto. Dell’ex Jugoslavia non importa niente a nessuno, mi hanno detto. E oggi un altro diplomatico di spicco non lo vedo neppure all’orizzonte, ma la diplomazia è l’unico strumento che abbiamo a disposizione per interrompere la violenza, perché quando le armi cominciano a sparare, sparano fino all’ultimo uomo». Costruito come una partitura musicale, con cinque movimenti a partire da un adagio, il film procede con ritmi diversi nel creare grande tensione emotiva, anche se la fine è nota: Parigi sarà salvata. «Non saprei spiegare come siamo riusciti ad ottenere questo risultato, sono stato il primo a sorprendermi. In Francia il pubblico si è commosso fino alle lacrime per qualcosa che non è mai accaduto. Questa è la potenza dell’arte. Un film non può dare messaggi, ma coraggio ed esempi positivi: come quelli che io ho ricevuto guardando Ida, il film di Pawel Pawlikowskisu una giovane suora polacca”. E a proposito dell’Europa, che ha appena festeggiato i venticinque anni della caduta del Muro di Berlino, ci racconta la sua più grande delusione: «Pensare che l’austerità fosse un mezzo per costringere tutti i Paesi a fare riforme è stato un errore di valutazione. Ora ci ritroviamo senza riforme e con l’economia in ginocchio. Il progetto europeo ha duemila anni, accomuna persone divise dalla lingua ma uniti dagli stessi valori, ma non si è tenuto conto dei reali bisogni della gente che certo non vuole una dittatura amministrativa. Io però sono un inguaribile ottimista e sono certo che prima o poi ce la faremo».
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