Papa Francesco in visita al Parlamento Europeo a Strasburgo il 25 novembre 2014 (Ansa/Christian Hartmann)
«Gettare ponti». Attorno a sé, fra i Paesi, anche dentro un continente denso come l’Europa. Attraverso il soffio di un anelito, dando pieno senso al concetto e all’ideale di comunicazione. Sembra essersi costruito attorno a questa speranza condivisa, che è pure un programma di vita, il lungo dialogo fra papa Francesco e il teorico francese della comunicazione Dominique Wolton, in uscita anche in Italia con il titolo Dio è un poeta. Un dialogo inedito sulla politica e la società (Rizzoli, pagine 266, euro 19,00), dopo aver già riscosso grande successo in Francia.
Ma chi è Wolton? A partire da quale percorso umano e scientifico ha proposto al Pontefice uno scambio a tratti quasi a ruota libera su svariati temi sociali e politici, cadenzato lungo una dozzina d’incontri a Santa Marta, fra il febbraio 2016 e il febbraio 2017? Un buon indizio sull’itinerario dello studioso, nelle domande poste al Papa, è la frequente enfasi sul futuro europeo. E l’opera scientifica di cui Wolton è più orgoglioso, la rivista quadrimestrale internazionale “Hermès” da lui fondata e diretta da trent’anni, è via via divenuta proprio un laboratorio d’idee di respiro europeo, accogliendo nel tempo contributi da tutto il continente. Un laboratorio molto transdisciplinare, a cavallo fra «cognizione, comunicazione, politica», rispecchiando in ciò pienamente le convinzioni di Wolton, per il quale un vero ricercatore «ha una libertà di spirito e non rientra nei canali classici».
Incontriamo lo studioso settantenne proprio nel quartier generale parigino di “Hermès”, dove risalta il tomo recente della rivista dedicato alle “incomunicazioni europee”. Un titolo in sintonia con molti sviluppi del libro con il Papa. Quando chiediamo allo studioso cosa l’ha colpito nella visione europea di Francesco, risponde subito: «L’epressione “Europa nonna”». Wolton spiega: «L’Europa non si rinnova e il Papa suona un campanello per svegliarla. È molto europeista, anche come argentino d’origine italiana. Come primo Papa della globalizzazione, soffre di fronte a quest’Europa che avrebbe in mano tutte le carte e che invece non è contenta e non è capace di credere in qualcosa».
Ma alla fine del lungo dialogo, l’intellettuale cosmopolita di padre inglese e con un’infanzia in Africa, è stato influenzato nei propri sentimenti europeisti? «Su due punti. Innanzitutto, la visione del Papa secondo cui servono sempre dei ponti, di nuovo dei ponti e ancora dei ponti. Parlare e ancora parlare, anche dei conflitti europei. Ha ragione. Poi, pure la sua forte convinzione secondo cui per vedere il centro occorre sempre collocarsi in periferia. Dialogando, mi sono reso conto che, istintivamente, anch’io avevo fatto in passato lo stesso, come ricercatore. Oggi, per comprendere i sentimenti europei e misurare i fiaschi attuali dell’Europa, occorre andare nei Paesi alla frontiera. È un’ottima cosa. Non per criticare l’Europa, ma al contrario per svegliare la nonna Europa».
Per Wolton, sul piano europeo, il Pontefice continua a richiamare certi aspetti fondamentali che le élite continentali tendono a dimenticare: «Il Papa chiede alla nonna Europa di tornare ad essere seduttrice. Dice che nella globalizzazione, c’è bisogno di un’Europa forte, aperta, non distante e non ripiegata su se stessa. Sono d’accordo con lui. I suoi avversari ripetono che non ama l’Europa. Ma sì, invece. Amando gli europei, tiene molto a dirci che siamo troppo pigri intellettualmente».
Ciò è particolarmente evidente sul fronte migratorio, insiste lo studioso: «Verso l’islam, che in Francia è la seconda religione, c’è una forma europea d’ipocrisia. Sfidando proprio quest’ipocrisia, il Papa mostra giustamente il nervo scoperto, invitando alla solidarietà verso gli immigrati. Il Papa invita l’Europa ad assumersi le proprie responsabilità».
Poi, sul tema delle radici spirituali del continente, Wolton si scalda: «L’Europa è masochista. Ha tutte le radici religiose, ma è incapace di valorizzarle. È vero, c’è altro accanto al cristianesimo e occorrerebbe parlare apertamente e liberamente di tutte queste radici. I valori culturali dell’Europa, a mio avviso, sono principalmente cinque: giudaismo, cristianesimo, islam, le diverse correnti del socialismo e le massonerie. Ecco le cinque origini culturali europee. L’identità europea è all’incrocio fra queste tradizioni».
Nella bibliografia di Wolton, accanto alle numerose pubblicazioni scientifiche, figuravano già due libri-intervista con due grandi francesi proiettati verso l’Europa, noti pure per le loro capacità non comuni di dialogo o negoziazione: l’indimenticato cardinale Jean-Marie Lustiger, simbolo anche dell’incontro fra giudaismo e cattolicesimo, e Jacques Delors, ultimo “padre” riconosciuto dell’Europa, fra fede cristiana e visione politica socialista.
La vera comunicazione «è sempre una negoziazione e poi una coabitazione», spiega lo studioso, rievocando il nocciolo della sua visione teorica, che a livello massmediologico si è tradotta in particolare nel concetto di “spazio pubblico mediatizzato”, come quello ad esempio della televisione. E applicando questi assiomi all’Europa, Wolton giunge pure a conclusioni che possono apparire sorprendenti: «All’interno dell’Europa, la comunicazione più autentica oggi è silenziosa, non usa parole, non dice nulla. È una sorta di adesione implicita dei popoli a questo progetto politico. Il cemento dell’Europa sono i popoli. Malgrado l’arroganza delle tecnocrazie, malgrado gli errori dei media e malgrado la disonestà dei politici che additano sempre l’Europa, permane un’adesione popolare europeista, al di là della crescita reale recente dell’eurofobia. Contrariamente a quanto dicono i pessimisti, il progetto europeo è radicato proprio a livello popolare, pur restando fragile. Le élite sono invece ormai globalizzate e percepiscono sempre meno l’interesse dell’Europa».
Per il rilancio dell’Europa, proprio su “Hermès”, l’intellettuale ha appena raccomandato “dieci cantieri” che includono in particolare la creazione di radio-televisioni paneuropee, proprio per contribuire a creare quello “spazio pubblico” transnazionale condiviso ancora generalmente assente: «La più grande avventura politica democratica della storia dell’umanità prosegue senza che i media spesso considerino che sia importante. Un’indifferenza quasi tragica».