venerdì 21 giugno 2019
Una retrospettiva al Museo Leopold di Vienna sull’artista che portò all’apice l’espressionismo. Costretto all’esilio continuo seppe rinnovare il suo stile libero dai dogmi dell’avanguardia
Oskar Kokoschka, “Lago di Ginevra II” (1923)

Oskar Kokoschka, “Lago di Ginevra II” (1923)

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Rivisitare Kokoschka. È l’intento della grande mostra che il Leopold Museum di Vienna ha allestito ponendo alle pareti circa duecentocinquanta opere fra disegni, litografie, incisioni, dipinti e scenografie, oltre ai documenti. Fin dal titolo di alcuni saggi in catalogo si capisce che lo sforzo del comitato scientifico è stato quello di far uscire Kokoschka dallo schema del genio di una Vienna cosmopolita e al tempo stesso imperiale, ma dove già si avvertono gli scricchiolii della Finis Austriae e della caduta austro-ungarica con la sconfitta nella Grande guerra (anche Oskar andò al fronte, venne ferito e congedato, il dipinto Fortuna del 1915 ne è credo una oscura testimonianza).

La mostra è pensata con un rigore che tollera anche alcune assenze nodali, come La sposa del vento, quadro dedicato ad Alma Mahler, sorta di rappresentazione incarnata dello Sturm (tempesta) a cui la vita di Kokoschka sembra votata fin dagli anni della sua prima affermazione (nel 1910 diventerà l’abituale illustratore della rivista “Der Sturm”). L’ideale proiezione sulla figura irrequieta e dominatrice di Alma, diventa però la metafora dell’epoca che ribolle di furori e impulsi distruttivi, che riguarderanno i decenni centrali della vita di Kokoschka, nei quali fu costretto a vari “esili” (da cui il sottotitolo della mostra: “Espressionista, Migrante, Europeo”). Pur operando dentro i filoni dell’avanguardia, Kokoschka mantiene sempre una libertà di giudizio e di movimento: non tollera dogmatismi e ideologie, ma si tiene sul piano dell’esperienza personale (la sua pittura negli anni della Grande Guerra ricorda l’espressionismo romantico del poeta Georg Trakl).

Il 1909, anno del mistico Ritratto di Adolf Loos, lo inquadra in quello che Patrick Werkner chiama «biotopo dell’avanguardia ». Ma è proprio lì che l’artista rifiuta l’inclusione di specie. Avanguardia, sicuro, ma con quella incisività di carattere che si ritrova in alcuni disegni del 1907, pur influenzati da Klimt, ma che già ci fanno capire che il focus della poesia figurativa di Kokoschka è nella elaborazione del mito della caverna primitiva, quella del graffito e della sedimentazione fossile dei viventi. Colpiscono le mani: intrecciate e ritorte, ossute e deformate, esprimono sofferenza e forza, altera e austera compostezza, minacciosa profezia dell’effetto che il tempo e lo sguardo hanno sulle cose; come chele di strani artropoidi imprigionati in un letto di pietra grazie a un disegno oppure fantasmi di vite torturate e inglobate nella diafana materia d’ambra da cui risplendono preziose nei colori e nelle forme. In ritratti come quello di Hugo Caro o del padre Hirsch i volti evocano dal nero di fondo le maschere di Ensor avvolte invece dal bianco.

Gli anni Dieci, prima e durante la guerra, sono popolati da demoni che non scontano pietà da parte del pittore; il clima era tale che pensare in chiaro, in una luce dove le ombre si riducono al minimo, era impossibile. Un gatto, nel 1910, o un infante tenuto da mani anonime di cui non si vede la figura intera (scelta davvero cupa e inquietante), oppure lo straordinario ritratto di due bambini del 1909: per Kokoschka l’esistenza è un teatro di maschere, di demoni che entrano ed escono dalla storia come grande scenario allestito dal demiurgo nascosto (notevoli per carica visionaria il ritratto di Paul Scheerbart e quello nel disegno che raffigura Karl Kraus del 1910, o ancora l’autoritratto che ricorre in alcuni poster dell’epoca).

Fu definito anche “super selvaggio” Kokoschka, la crudeltà, non goduta ma subita dall’esterno come una coazione a rappresentare, si coglie in un dipinto del 1910, la Natura morta con agnello e giacinto. Giustamente la mostra insiste sul primo periodo, perché è in quegli anni che si forma e si conferma il linguaggio e lo stile di Kokoschka. E se poi il linguaggio segue le sue trasformazioni, lo stile resta intatto.

Qualche esempio di continuità: il paesaggio dolomitico delle Tre Croci del 1913, i disegni di nudi che scavano la loro volumetria con linee segmentate e ritorte; negli anni dell'insegnamento all’Accademia di Dresda, fra il 1917 e il 1924, ecco la tavolata degli Amici dove le figure divorano lo spazio disponibile sulla tela imponendo una visione claustrofobica (quadro che, come altri di Kokoschka, ispirò il grottesco di Willy Varlin), quindi la lenta apertura del diaframma che ravviva i colori, come nei paesaggi di Dresda, di Avignone, nell’incredibile e modernissimo dipinto della piazza dei mercatini di Amsterdam, che è già espressionismo astratto (siamo nel 1925); poi la fuga a Praga dopo l’Anschluss e le tele dai colori che si attenuano come pastelli ma brillabno di forza interna (potente e tellurico Praga - Nostalgia del 1938).

Lo scoppio della seconda guerra mondiale lo vede in esilio a Londra, da quel momento la sua pittura è rielaborazione sempre diversa e rinnovata dei colori chiari emersi alla metà degli anni Trenta. Il periodo postbellico è tempo di una riflessione sui valori (quelli distrutti e quelli salvati). E il ritratto bellissimo del violoncellista spagnolo Pablo Casals del 1954 ci fa capire che lo stile, in un artista, quando non diventa un’ossessione, è l’espressione più naturale della libertà del genio.

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