
Una scena del film "Il mio giardino persiano" - -
Al Festival di Berlino 2024, dove il loro film Il mio giardino persiano, era in concorso, vincendo il premio della Giuria Ecumenica, i registi iraniani Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, coppia nella vita e dietro la macchina da presa, non avevano partecipato alla conferenza stampa perché raggiunti dal divieto di lasciare il Paese. Ora che il film arriva nelle sale italiane, il 23 gennaio con Academy Two, le cose per loro non sono cambiate. Ma noi li abbiamo virtualmente raggiunti a casa loro, dove sono circondati da libri e gatti.
«Siamo ancora nel bel mezzo del lungo processo che ci vede al banco degli imputati – dice Sanaeeha – e da quasi due anni ormai i passaporti ci sono stati confiscati. Siamo in attesa di una sentenza, ma contro di noi il governo muove tre accuse ridicole: propaganda contro il regime, istigazione alla prostituzione a libertinismo e volgarità del film. Ogni mese ci interrogano per ore».
Il film, interpretato da Esmail Mehrabi e Lili Farhadpour, coprodotto da Iran, Francia, Svezia e Germania, racconta dell’anziana Mahin, vedova ormai da molti anni, che un pomeriggio, dopo un pranzo con le amiche, decide di rompere la sua routine solitaria e di riaprirsi all’amore. L’incontro inaspettato con un uomo dolce e gentile, Faramarz, sfocerà in una serata indimenticabile e il desiderio, almeno per una notte, avrà la meglio sulle regole della vita e sulle leggi del regime iraniano. Con un finale inatteso che non riveliamo.
Il film mescola ironia, tenerezza e toni più drammatici, raccontando le sorprese, la bellezza e l’assurdità della vita. Secondo il regime di Teheran i registi sono colpevoli però di aver raccontato la quotidianità degli iraniani e la forza dei loro sogni oltre ogni insensata proibizione.
«Abbiamo scelto questa storia – commenta Moghaddam – per mostrare la verità sulla vita quotidiana degli iraniani e cosa accade nelle loro case, non le menzogne che ci hanno costretto a raccontare per 45 anni. Quella della protagonista del film è una vita come tante, tra gli anni che trascorrono veloci, le piccole e spesso insignificanti cose di tutti i giorni. Una vita solitaria e poi qualche ora di felicità che riesce a dare un senso a un’intera esistenza, rendendola degna di essere vissuta».
La scelta di una donna matura come protagonista non è casuale...
Sanaeeha: «Le persone anziane hanno accumulato molta esperienza, conoscono la solitudine, sono più vicini alla morte e hanno una prospettiva sulla vita diversa da quella dei giovani».
Moghaddam: «E poi l’industria cinematografica ci ha abituati ad assistere alla vita, all’amore, ai desideri di giovani bellissimi secondo standard fisici piuttosto stereotipati. La storia di una coppia più anziana ci permette di dire che le persone di ogni età e forma fisica possono essere interessanti da raccontare».
Il mio giardino persianonon è certo un film militante, eppure per una donna il far entrare un uomo in casa, bere del vino, mostrarsi senza hijab diventano gesti politici e sovversivi.
Moghaddam: «Molti gesti quotidiani ci sono proibiti, le scelte più semplici e insignificanti in altri Paesi sono in Iran un gesto di disobbedienza. Siamo dunque costretti a una doppia vita: in casa siamo le persone che vogliamo essere, mentre fuori dobbiamo diventare quelle che vogliono loro. Non possiamo vestirci e mangiare come vogliamo, ci è proibito ascoltare musica e ballare».
Lo stile del film è caratterizzato da molte immagini fisse e da movimenti assai lenti.
Sanaeeha: «Abbiamo sempre avuto un approccio minimalista alla messa in scena, cerchiamo di evitare movimenti complicati e pretenziosi. Le immagini sono fisse nella prima parte del film per restituire la solitudine e la noia della protagonista, la sua vita monotona e incolore. A mano a mano che la storia procede, quando lei conosce Faramarz, i movimenti aumentano con il crescere della relazione tra i due».
Moghaddam «La lentezza permette allo spettatore di osservare attentamente il mondo abitato dai personaggi, immedesimandosi con loro e non restando in superficie».
Tornando alle difficoltà della vita quotidiana nel Paese, Moghaddam, che online può mostrare i suoi lunghi capelli rosa, afferma con orgoglio:
«Come molte altre iraniane sto cercando di essere me stessa anche a rischio di essere punita. Nelle strade sempre più donne non indossano più il velo, siamo stanche di essere spaventate, dobbiamo essere coraggiose e accettare le conseguenze delle nostre azioni. La gente beve alcool, organizza feste, guarda film stranieri nascondendo dvd sotto i sedili delle macchine, monta satellitari sui balconi».
Anche gli attori rischiano molto accettando di interpretare film che non siano di propaganda.
Sanaeeha: «Le conseguenze sono arrivate anche per Esmail e Lili, coinvolti entrambi nel nostro stesso processo: da oltre un anno non possono più lavorare. Con loro abbiamo fatto lunghe prove, cinque ore al giorno per tre mesi, poi le riprese sono durate sessanta giorni, se si escludono quelli in cui ci siamo fermati a causa dell’assassinio di Mahsa Amini, che ha dato inizio al movimento “Woman, Life, Freedom”. Abbiamo sentito come un dovere il finire il film, che parla proprio di donne, vita e libertà. Ogni giorno di lavoro poteva essere l’ultimo, ma i guardiani della rivoluzione erano troppo occupati a reprimere le manifestazioni nelle strade».
E mentre il governo imbavaglia il cinema, i film iraniani si fanno apprezzare in molti festival internazionali vincendo premi prestigiosi e accendendo i riflettori sull’odioso regime.
Sanaeeha: «Da decenni i registi iraniano lottano per la libertà e la loro arte, riuscendo comunque a fare i loro film, basti pensare a Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof. A volte otteniamo permessi per un corto o un documentario, a volte al Ministro della Cultura consegniamo una sceneggiatura diversa da quella che gireremo. Esiste oggi una nuova generazione di giovani e talentuosi filmmaker in Iran che troveranno sempre il modo per fare film. Il governo sa di non poterci mettere tutti in prigione, anche per il regime è complicato. La nostra lotta continua».