sabato 24 agosto 2019
Una critica sociale delle neuroscienze è progetto non solo benvenuto, ma anche necessario, di fronte all’enfasi posta sulle scoperte concernenti il nostro cervello. Un libro di Ehrenberg
Doriano Solinas, Adolescenza

Doriano Solinas, Adolescenza

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Una critica sociale delle neuroscienze è progetto non solo benvenuto, ma anche necessario, di fronte all’enfasi, spesso eccessiva, posta sulle scoperte concernenti il nostro cervello. Per questo il recente libro del sociologo francese Alain Ehrenberg, che prosegue una rilevante ricerca partita dalla psicologia e psicoterapia contemporanee con due volumi precedenti, si annunciava come una lettura di riferimento. Il suo La meccanica delle passioni. Cervello comportamento e società (Einaudi, pagine 342, euro 26) si rivela però un’impresa compiuta solo in parte. L’intuizione che le neuroscienze cognitive – cioè quella parte della ricerca che si concentra sulle basi biologiche del pensiero – abbiano acquisito ormai un’autorità morale fornisce una chiave interpretativa particolarmente efficace nel solco di un’analisi genealogica critica. L’ambizione di Ehrenberg, in realtà, è di andare oltre la lettura di Michel Foucault che, pur in una stagione in cui le neuroscienze non erano ancora alla ribalta, prendeva a bersaglio il loro riduzionismo, espressione di un “biopotere” posto al servizio del neoliberismo dominante.

La questione era: queste nuove scienze sono emancipatrici o un altro strumento di controllo sociale? Non è più (solo) questa la domanda, sembra dire l’autore, essendo l’obiettivo il rendere esplicito un nuovo modello sociale che si alimenta reciprocamente con il diffondersi della prospettiva neuroscientifica sul comportamento umano e sulle patologie mentali. Secondo Ehrenberg, il successo e il fascino delle scoperte che si susseguono a ritmo rapidissimo hanno creato non solo la credibilità delle scienze del cervello, ma anche un paradigma esplicativo più generale, che va oltre lo stretto ambito fisiologico e medico.

Le neuroscienze – si argomenta – costruiscono un individuo staccato dalle sue relazioni perché la spiegazione dell’azione passa da ciò che avviene all’interno del sistema nervoso di ciascuno. In tal modo emergono importanti implicazioni sociali. Per esempio, di fronte al disagio del lavoratore all’interno di un’organizzazione, è preferibile (e più facile) trattare il singolo con uno psicofarmaco che provare a cambiare la struttura o i rapporti di potere. Ma c’è di più. Ed è la tesi centrale del libro: le neuroscienze trovano, assecondano e rafforzano (dandogli una giustificazione scientifica) il modello sociale (di stampo anglosassone) dell’autonomia personale e dell’individualismo democratico, che esalta la responsabilità della persona e nello stesso tempo le mette pressione perché sia “capace” e “creatrice” di ricchezza e di stili di vita.

La sollecitazione a essere “produttivi” senza dipendere o fare affidamento sugli altri – leggi: un capitalismo postindustriale privo però di Stato sociale – sfrutta l’ideale di potenziale nascosto che propagandano le stesse neuroscienze, soprattutto nel loro approccio clinico, dove ha un ruolo importante anche la plasticità cerebrale, ovvero la costante possibilità di cambiare e progredire. L’esempio più chiaro è quello del nuovo approccio all’autismo, oggi uno dei disturbi più temuti, che si manifesta, tra l’altro, con una difficoltà di comunicazione e di sintonia emotiva con gli altri. Ebbene, a partire dalla vicenda di Temple Grandin, la scienziata colpita da sindrome di Asperger (o autismo ad alto funzionamento) che ha fatto una battaglia per la cosiddetta neurodiversità, si evidenzia il modo in cui la descrizione neuroscientifica della malattia possa portare a rivendicare la propria condizione patologica come una differenza positiva e una sfida che si può vincere. In questo senso, il potenziale nascosto, pare suggerire Ehrenberg, rappresenta la traduzione dell’imperativo efficientistico – «aiutati da solo perché nessuno altro lo farà» – rivestito dall’autorevolezza che ha acquisito la ricerca sul cervello.

E qui è lecito sottolineare almeno la parzialità di questa lettura. Un approccio scientifico alla malattia mentale (che diventa quindi cerebrale) può essere, come in realtà è stato, emancipatorio sia in termini di terapie più efficaci sia in termini di ribaltamento della percezione diffusa: da stigma e “colpa” dell’individuo a semplice disordine organico, per cui si deve essere al più compatiti. Il potenziale nascosto è allora una formula felice prima che un cavallo di troia dello sfruttamento. Inoltre, risulta sicuramente contestabile il riduzionismo neuroscientifico che porta a leggere ogni disagio della persona come un’alterazione biologica, ma è necessaria una critica competente che entri nel merito della questione, e su questo versante il libro è carente e poco preciso. Infine, se è vero che l’uso esterno della scienza è svincolato dalle dinamiche interne della comunità degli studiosi, Ehrenberg, al fine di sostenere la tesi del libro, opera una iper-semplificazione della convergenza tra "fisiologia dell’autonomia" e "fisiologia cerebrale", tra ricerca parcellizzata e un ideale morale complessivo. Che le neuroscienze stiano diventando un "racconto" del nostro tempo, una narrazione totale dell’essere umano non è però in discussione. E l’averlo documentato rimane uno dei meriti del lavoro di Ehrenberg.


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