Padre Maurice Bellet
Era noto, non solo in Francia, come uno dei più ardenti difensori di una «fede critica», costantemente all’ascolto dei segni dei tempi. Anche per questo, nella propria riflessione, aveva cercato d’integrare le nuove chiavi interpretative novecentesche, a cominciare dalla psicanalisi. Il sacerdote teologo Maurice Bellet è scomparso ieri all’età di 94 anni, presso l’Ospedale Sant’Anna di Parigi, colpito da un ictus.
Decano della teologia francese, aveva conservato fino agli ultimi anni il gusto per la divulgazione, attraverso un gran numero di conferenze. Fra le espressioni del teologo più spesso citate, figura l’invito costante ad «aver fede nella fede»: ovvero, l’esortazione a non limitarsi mai al livello cerebrale di una fede slegata dal vivere quotidiano. Per Bellet, credere è un tipo di «relazione in cui la fede, la speranza e la carità diventano un’unica cosa».
A livello mediatico, il sacerdote (ordinato nel 1949), filosofo e teologo, era noto anche per la denuncia delle derive totalitarie e ideologiche di ogni natura, compresi gli eccessi del capitalismo postbellico, o certe forme d’imperialismo della tecnologia. In proposito, in una lunga intervista di qualche anno fa alla radio cattolica francese Rcf, aveva affermato: «Questi progressi portano in loro un pericolo. E se non abbiamo il coraggio di lottare contro questo pericolo, ciò che è progresso può trasformarsi in catastrofe». Anche per questo, i cristiani dovrebbero sempre dimostrarsi capaci di esercitare un «doppio giudizio», restando in allerta di fronte alle rapide metamorfosi dell’epoca contemporanea: «Essere capaci di apprezzare tutto ciò che si può fare di bello e di grande, ma allo stesso tempo, essere capaci di un giudizio critico che può essere estremamente duro».
Il senso ambivalente delle opportunità inedite e dei rischi esponenziali del nostro tempo si era profondamente impresso nella sensibilità di Bellet fin dagli anni della Seconda guerra mondiale, anche di fronte alla tragedia della Shoah. In proposito, il teologo si diceva spesso amaramente colpito dalla diffusa cecità della Francia dell’epoca bellica di fronte a un simile cataclisma per la civiltà europea.
Sul piano teologico, quella di Bellet è una riflessione spesso segnata dall’urgenza di lanciare ponti fra la fede e le altre dimensioni anche più contingenti. A chi lo interrogava sul miglior atteggiamento dei cristiani verso la secolarizzazione galoppante, amava ripetere per cominciare che «il nostro mondo è fatto di persone» e che i cristiani hanno prima di tutto e sempre il dovere di «amarle nel senso evangelico del termine». Proprio per questo, di fronte a queste persone, un cristiano dovrebbe sempre imporsi «di non giudicarle, né condannarle, escluderle, lavorare alla loro rovina». Anche al cospetto dei peggiori criminali, i cristiani dovrebbero conservare sempre la capacità di «sperare» nella possibilità di un riscatto, operando con atti e parole fecondati sempre dall’ascolto del Vangelo.
L’istinto pastorale e la riflessione teologica di padre Bellet non avevano mai cessato di nutrirsi vicendevolmente, come vasi comunicanti. A lungo docente di filosofia all’Institut catholique di Parigi, il teologo ha lasciato una cinquantina di volumi, affrontando talora pure i temi dell’economia, come nel saggio Invito. Elogio della gratuità e dell’astinenza (Messaggero, 2004), e cimentandosi anche nel romanzo e nella poesia. Fra gli scritti che l’avevano fatto conoscere in Italia negli anni Settanta, si ricordano Un nuovo linguaggio per la catechesi (La Scuola, 1971), accanto a Fede e psicanalisi (Cittadella, 1975).
A partire dagli anni Novanta, le traduzioni si erano accelerate, con opere come La Chiesa: morta o viva? (Cittadella, 1994), L’estasi della vita (Edb, 1996), Vocazione e Libertà (Cittadella, 2008), Dio? Nessuno l’ha mai visto (San Paolo, 2010), accanto ai numerosi titoli pubblicati da Servitium, come Il corpo alla prova o della divina tenerezza (2000), L’amore lacerato (2001), La via (2001), L’incipit o dell’inizio (2001), La quarta ipotesi sul futuro del cristianesimo (2003), L’assassinio della parola. O la prova del dialogo (2009), Il Dio selvaggio. Per una fede critica (2010). Nell’ultimo volume uscito in Italia, Credere nell’uomo (Qiqajon, 2015), il messaggio cristiano, incarnato e fraterno, viene ancora una volta associato alla continua scoperta dell’altro. Quella «gente» da cui Bellet non intendeva separarsi.