venerdì 23 marzo 2018
40 anni fa i campionati della vergogna vinti a Buenos Aires dall'Argentina. I luoghi di tortura erano a poche centinaia di metri dallo stadio.Tra i desaparecidos anche giovani promesse del pallone
Argentina 1978. Daniel Passarella riceve la Coppa dal generale Videla (a destra) e dal presidente della federcalcio Cantilo

Argentina 1978. Daniel Passarella riceve la Coppa dal generale Videla (a destra) e dal presidente della federcalcio Cantilo

COMMENTA E CONDIVIDI

Quarant’anni fa la storia di cuoio era costretta a vergare con il sangue degli innocenti il capitolo del Pallone desaparecido. Storia atroce, indelebile, che è anche il titolo del libro di Alec Cordolcini (Bradipolibri, pagine 164, euro 16,00) che racconta di quel Mundial insanguinato del 1978.

Del romanzo criminale di Argentina ’78 il tragico incipit venne scritto il 24 marzo del ’76. Quel giorno la Junta Militar composta dalla triade famelica, il generale dell’esercito Jorge Rafael Videla, l’ammiraglio della marina Emilio Eduardo Massera e il capo della forza aerea Orlando Ramón Agosti, sospesero la Costituzione assumendo il controllo dell’Argentina. Il Paese, era caduto in mano all’ultimo rigurgito di “nazismo” esportato dal Vecchio Continente nelle lontane lande sudamericane.

La Junta Militar per mascherare quell’inferno che si consumava nei Garage Olimpo (raccontato sul grande schermo dallo “scampato” regista Marco Bechis) a cento passi dagli stadi, costruì una macchina organizzativa diabolica, quanto le camere delle torture perpetrate all’Esma, l’officina meccanica che distava appena seicento metri dallo stadio Monumental di Buenos Aires. Lo stadio della Coppa della vergogna, alzata al cielo dalla Selección.

Nonostante la sconfitta contro l’Italia, gol di “Pablito” Rossi, l’Argentina del ct César Luis Menotti (che proclamava di non giocare per gli odiati generali: «Vinciamo per alleviare il dolore del popolo») arrivò fino in fondo. Un trionfo agevolato nel corso del Mundial con il 6-0 farsesco imposto al Perù, e nella finale del Monumental, contro l’Olanda (3-1), garantito da un arbitraggio giudicato «molto casalingo », affidato all’italiano Sergio Gonella.

Argentina più forte di tutto e tutti, anche della vivacissima eppure pacifica “Arancia Meccanica”, l’Olanda orfana di Johan Cruijff che diede forfait. Il «no al Mundial» del divino Johan dipese da scelta politica, paura di un rapimento? Chissà... Ciò che è certo è che tutti i protagonisti del torneo a cominciare dai calciatori dell’Argentina negarono di essere a conoscenza dello stato di terrore che serpeggiava velenoso per tutto il Paese. Le notizie che arrivavano in Europa erano frammentarie e pilotate ad arte, a seconda dei rapporti diplomatici tenuti dai vari governi con quello di Baires.

Videla come ogni dittatore sa bene che il calcio è l’oppio del popolo e così impegnò tutte le risorse necessarie per anestetizzare ogni forma di rivolta popolare. Argentina ’78 fu un gran galà del calcio da 500 milioni di dollari, budget quattro volte superiore al successivo Mundial di Spagna ’82 vinto dall’Italia di Enzo Bearzot. E proprio gli azzurri del “Vecio” («ignari di tutto ciò che accadeva, anche se capivamo che c’era qualcosa di strano», raccontarono poi in coro) aprirono le danze. Il 2 giugno a Mar del Plata alle ore 13.45 argentine si disputò Italia-Francia (2-1, in rimonta). Nello stesso giorno a Buenos Aires, a seguire, debuttarono anche i padroni di casa dell’Argentina contro l’Ungheria, e anche loro vinsero, in rimonta, 2-1.

Il cammino di Italia e Argentina andò su binari paralleli, fuori e dentro il campo. Fuori, loschi trafficanti e massoni della P2, a cominciare dal venerabile Licio Gelli, sedevano tronfi in tribuna al fianco di Videla che dentro al suo cappotto scuro fingeva normalità assoluta mentre negli oscuri “lager” argentini i suoi boia con la picana (il pungolo elettrico usato dai gauchos per controllare il bestiame) si divertivano a torturare giovani e anziani indifesi e persino donne incinte.

«Un’intera generazione di ventenni e trentenni è stata cancellata durante il Mundial», scrive amaro Cordolcini. Una generazione scomparsa è il libro e il docufilm di Daniele Biacchessi (realizzato con Giulio Peranzoni; Jaca Book, pagina 124+Dvd, euro 20,00), che ricorda: «Dal 1976 al 1983 l’Argentina di Videla si trasforma in un immenso campo di concentramento, non visibile, coperto da occhi indiscreti. I sequestri avvengono di notte, ma non mancano arresti alla luce del sole...».

Impossibile che capitan Daniel Passarella, il bomber mundial Mario Kempes e compagni non abbiano visto né sentito, come si sono giustificati fino ai giorni nostri. «Il fatto che siano stati in tanti a negare va valutato con grande attenzione: dimostra la portata devastante del trauma cui è stato sottoposto il popolo argentino», disse l’allora console italiano a Buenos Aires Enrico Calamai, uno dei primi a parlare e denunciare quelle storie di sommersi e salvati d’Argentina. Nel suo diario di “salvato”, Né oblio né perdono. Diario di un prigioniero politico (Edizioni Gruppo Abele), l’attivista sindacale di Córdoba, Daniel Esteban Pittuelli, ricorda le partite della Selección «ascoltate dall’altoparlante nel cortile del carcere di Sierra Chica». Scene di ordinaria follia: «I morituri festeggiano i gol in uno sfogo catartico, ma al fischio finale le torture e le uccisioni riprendono inesorabili».

Erano i novanta minuti di tregua concessa dai carcerieri: sospendevano le torture solo fino al triplice fischio dell’arbitro e in quel breve lasso di tempo interrompevano anche i «voli della morte». Oltre 30mila i desaparecidos, 5mila italiani di prima e seconda generazione. La maggior parte finirono in fondo all’oceano, lanciati dai funerei Falcon. Giovane, povera umanità spappolata all’impatto con quel mare d’acciaio che non ha riportato indietro i corpi alle Madri de Plaza de Mayo che, in lacrime e con la foto dei propri figli stretta tra le mani, dopo quarant’anni attendono ancora verità e giustizia.

Anche domani queste mamme vestite a lutto scenderanno in piazza per il tradizionale Nunca más e questo 24 marzo, per la prima volta, a loro si uniranno due campioni del mondo del ’78: Luque e Villa. Ci sarebbe dovuto anche essere Houseman, se la morte non l'avesse proprio ieri all'età di 64 anni. Tre compagni di nazionale del ribelle Jorge Carrascosa detto “El Lobo”, il lupo. Doveva essere lui il capitano di quella Selección, trentenne all’apice della carriera; era pronto a sbranare gli avversari ma rinunciò al Mundial «perché quello che stava accadendo mi faceva stare male. Non avrei potuto giocare e divertirmi, non sarebbe stato coerente».

Carrascosa fu uno dei rari pensatori con i piedi consapevoli del dramma dei desaparecidos che, dopo gli ambienti intellettuali e la sparizione del giornalista dissidente Rodolfo Walsh (svanito nel nulla nel marzo del ’77 dopo aver scritto una lettera aperta a Videla in cui chiedeva spiegazioni sui crimini del regime), aveva colpito anche il mondo del calcio con la scomparsa misteriosa del 24enne Javier Felipe Guzmán.

Storia di un sognatore anarchico, quella del bomber del Club Atlético Colón. Donde esta el niño Guzmán? è diventata una canzone, l’amletico interrogativo che da quarant’anni campeggia sui murales di Buenos Aires e Rosario. La città dove Guzmán era nato nel 1964. Rosario è anche la “patria” del “Che” Ernesto Guevara e del ct Menotti che aveva inserito “El Niño” nella lista dei convocabili per il Mundial, ma il talentuoso Guzmán si perse nel nulla. Polverizzato, forse per via della sua voglia di libertà. «Guzmán era insofferente a qualsiasi tipo di imposizione, persino gli schemi in campo», ha raccontato il suo compagno di squadra Patricio Mendoza.

Uomini in fuga. Per non finire nelle mani dei militari il più grande scriba di calcio, Osvaldo Soriano, riparò da rifugiato politico a Bruxelles e poi a Parigi. Per rifarsi una vita, dimenticare la prigionia e le torture subìte alla Mansión Seré, l’allora 22enne portiere dell’Almagro Claudio Tamburrini salì ancora più a nord, fino in Svezia. La sua storia, nel 2006, è diventata il film Cronaca di una fuga – Buenos Aires 1977: oggi Tamburrini è un apprezzato scrittore e conferenziere, si è laureato e insegna Filosofia all’Università di Stoccolma.

In Argentina è tornato nel 1985, al solo scopo di far condannare alcuni degli assassini della Junta Militar. Anche Soriano anni dopo rimise piede a Buenos Aires per riabbracciare i vecchi amici e colleghi del quotidiano “Página 12” e rivedere il mare. Davanti a quell’oceano in cui erano annegate le speranze del suo Paese e assurto a cimitero della meglio gioventù d’Argentina, “El Gordo” Soriano sospirò: «Siamo qui di nuovo, a guardare il futuro in punta di piedi, fermi su una palude, scossi da un vento che viene dal passato e che non sappiamo se ci trascinerà verso il futuro, o verso l’abisso».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: