martedì 1 dicembre 2015
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La baleniera «Essex» salpò il 12 agosto 1819 dal porto di Nantucket, in Massachusetts. Quindici mesi più tardi, il 20 novembre 1820, fu assalita da un gigantesco capodoglio maschio al largo delle Galapagos, in mezzo all’Oceano Pacifico. L’esemplare era di dimensioni eccezionali (misurava circa 26 metri) e del tutto straordinario fu il suo comportamento. In precedenza c’erano già stati episodi di navi danneggiate dai grandi cetacei, ma si trattava di collisioni accidentali, favorite di solito dall’oscurità della notte. L’attacco contro la «Essex» fu invece sferrato in pieno giorno, durante una pausa delle battuta di caccia in cui i balenieri erano impegnati. Il capodoglio si avvicinò alla nave, la colpì sul fianco una prima volta, poi si inabissò e passò sotto la chiglia staccandone una parte. Infine si allontanò, come a prendere la rincorsa, e tornò ad abbattersi sulla «Essex». Il secondo schianto fu fatale. La baleniera, ridotta a un relitto, affondò in pochi minuti. Ricorda qualcosa, non vi sbagliate. Basta cambiare il nome della nave, mettere «Pequod » al posto di «Essex» e questo è grosso modo il finale di Moby-Dick. La storia della «Essex», del resto, era ben nota tra la gente di mare anche a decenni di distanza ed Herman Melville ne aveva letto il resoconto più celebre proprio durante uno dei suoi viaggi da giovane baleniere. Era la relazione pubblicata nel 1821 dal primo ufficiale Owen Chase, uno degli otto sopravvissuti al naufragio. La differenza principale tra il romanzo di Melville e la vicenda che l’ha ispirato è proprio questa: del «Pequod» si salva solo l’orfano Ishmael, mentre la «Essex» conta un numero maggiore di superstiti, un drappello di uomini che, su una piccola flottiglia di scialuppe, resistono in mare aperto per tre mesi. Resistono a tutti i costi, arrivando perfino a cibarsi – non senza un tormentoso travaglio morale – dei compagni morti.  Storia terribile, raccontata con il dovuto distacco dallo studioso della marineria Nathaniel Philbrick in un saggio, Nel cuore dell’oceano, uscito originariamente nel 2000 e subito annoverato tra i classici della  nuova storiografia narrativa. Il libro viene ora riproposto da Elliot con il titolo Heart of the Sea: le origini di Moby Dick (traduzione di Sara Caraffini, pagine 320, euro 17,50) che è lo stesso del film diretto da Ron Howard, nelle sale italiane da giovedì.  Produzione cinematografica imponente come il capodoglio di cui sopra, e narrativamente imperniata sulla figura del già ricordato Owen Chase, qui interpretato da Chris Hemsworth, il Thor di Avengers e dintorni. Per una fortunata coincidenza, la programmazione di Heart of the Sea e la riproposta del libro di Philbrick cadono in perfetta sincronia con la pubblicazione della nuova, attesa traduzione del Moby-Dick di Melville approntata da Ottavio Fatica per Einaudi (pagine 674, euro 30). Operazione filologica fin dalla conservazione del trattino nel titolo, un segno grafico normalmente omesso dai traduttori. Ma anche riscrittura di magnifica resa letteraria, nella quale le fonti di Melville – molto Shakespeare, moltissima Bibbia – vengono riportate in superficie e lasciate libere di agire. Certo, la pionieristica traduzione di Cesare Pavese, realizzata con rapidità strabiliante ed edita da Frassinelli nel lontano 1932, conserva il fascino di una scoperta turbinosa e a tratti affannata. Pavese, in fondo, è stato il Cristoforo Colombo del continente Melville, gli esploratori venuti in seguito hanno migliorato e contraddetto la sua mappa, ma il primo a mettere piede su quella terra incognita è stato lui: come poteva non sbagliare? Leggere, come se fosse un libro nuovo, lo splendido Moby-Dick di Fatica e tenere lì a fianco il saggio di Philbrick aiuta ad avere una cognizione più chiara dell’amalgama da cui nasce, nel 1851, questo romanzo assolutamente non romanzesco, opera mista di cronaca e d’invenzione come tante altre nell’Ottocento (da Balzac a Dostoevskij, da Dickens a Zola) e insuccesso clamoroso nella carriera di uno scrittore fino a quel momento discretamente affermato. Le recensioni dell’epoca sono abbastanza impietose nell’elogiare la presunta parte documentaria e intanto ridimensionare le ambizioni letterarie di Melville, al quale si rinfaccia addirittura di essersi lasciato prendere la mano dal troppo magniloquente Achab. Per avere una visione ancora più completa mancherebbe ancora un tassello, ossia l’opuscolo pubblicato nel 1839 da un certo Jeremiah N. Reynolds sulle terrificanti imprese di un’enorme balena albina avvistata a più riprese nel Pacifico. I marinai la chiamavano Mocha Dick. Senza trattino, a quanto pare.
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