lunedì 22 luglio 2013
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Dalla Parigi di Jacques Lacan e della psicoanalisi al Cristo di Péguy e Claudel. Passando per le pagine di “Le Monde”, il quotidiano francese patria della laicité. L’itinerario di Patrick Kéchichian, critico letterario e scrittore, attraversa gli ultimi decenni del secolo breve. E traccia la parabola di un’inquietudine personale profonda che ha trovato nella carità del Nazareno – attraverso le pagine mirabili di Kierkegaard – la risposta alle domande che ciascuno, forse, non riesce neppure a porsi.Cosa è successo nella sua vita perché lei si possa definire “un convertito”?La mia è una lunga storia. La si può dividere per decenni: a vent’anni iniziavano a sorgere in me diverse domande. A trent’anni questi interrogativi sono diventati ancor più dolorosi. E intorno a questa età sono giunto a riconoscere nella fede cristiana la risposta inattesa alle mie domande. In quegli anni – sebbene fossi ignorante di quel che era la religione cristiana, nonostante avessi letto Péguy e Claudel – arrivai a convincermi che nel cristianesimo vi era la risposta ai miei dubbi. Ho impiegato alcuni anni a verificare tale corrispondenza, ma ho sperimentato che le domande che mi ponevo avevano le proprie risposte all’interno della fede cristiana. A quel punto ho iniziato a partecipare alla messa domenicale: ero stato battezzato nella Chiesa apostolica armena, quella dei miei genitori. Tra i trenta e i trentacinque anni ho iniziato a leggere le Scritture, frequentando alcuni corsi e leggendo autori cristiani. Non mi sbarazzavo dei miei interrogativi, ma capivo che le domande che mi facevo erano contenute nel deposito della fede che andavo scoprendo. In questo cammino ho avuto diversi compagni: i grandi scrittori cristiani (ho citato Péguy e Claudel, aggiungo Georges Bernanos), ma anche Giovanni Paolo II, di cui leggevo le encicliche, e il cardinale Jean-Marie Lustiger, allora arcivescovo di Parigi: è stato lui a cresimarmi nel 1985, i suoi libri sono stati uno strumento eccezionale nella mia formazione. Cosa ha determinato in concreto la sua conversione?Prima che diventassi credente, la mia è stata un’esistenza dolorosa. Non mi amavo molto, anzi avevo un’eccessiva severità verso me stesso. Fino a quando non ho incontrato le parole di san Giovanni apostolo: “Anche se tu non ti ami, Dio ti ama lo stesso”. In quel momento ho compreso che esisteva un amore più grande di quello che potevo comprendere. Tutta la nostra fede cristiana consiste nel relativizzarsi in uno spazio più grande di noi, quello di Dio e del suo amore per noi, rinunciando alle nostre pretese. Non sono un mistico, semplicemente uno che rinuncia a qualcosa di sé in un atto di fede e riceve questo amore senza limite da Dio. Riconoscere questo amore è stato un dato essenziale nel riscoprire la fede. In che modo cercava risposta ai suoi dubbi prima di approdare al cristianesimo?Il periodo prima della mia conversione lo qualifico come doloroso. Nell’ambiente culturale di quegli anni la psicoanalisi rivestiva un ruolo fondamentale. La pratica psicoanalitica nella Parigi degli anni Settanta veniva concepita come la scienza con cui era possibile arrivare a comprendersi, soprattutto da un punto di vista intellettuale. La grande domanda intellettuale che ci si faceva, io per primo, era come conoscere se stessi. Si ricorreva anche a pratiche sessuali, alla droga, alla musica, in una sorta di ricerca spasmodica di liberazione del corpo e dello spirito. Pian piano riconoscevo che percorrendo queste strade non arrivavo a niente: la liberazione mediante la droga, la musica o il sesso non dava un senso di libertà. Le domande spirituali e metafisiche non trovavano così le loro risposte. Cosa le ha permesso di capire che il cristianesimo ha in sé la risposta alla Grande domanda?La lettura di Søren Kierkegaard ha costituito per me una grande rivelazione. Questo filosofo è capace di mostrare il carattere tragico dell’esistenza, proponendo una lettura non idilliaca del cristianesimo, ma facendo brillare una luce evidente che si poteva verificare nella fede stessa. E quando questa luce mi è “apparsa”, tutta la dottrina della Chiesa mi si è manifestata in un colpo solo nella sua integralità: la Trinità si giustificava, Maria Vergine prendeva il suo posto, la comunione dei santi lo stesso, il carattere divino, storico e invisibile della Chiesa, la solidarietà tra i cristiani... tutto diventava comprensibile. Ho vissuto una sorta di accumulazione della certezza. Non vi è stata nessuna visione, ma dal buio totale sono passato alla luce totale. Non potevo supporre che vi fosse da qualche altra parte una fonte di chiarezza come quella che avevo incontrato: la luce esisteva solo da una parte, Cristo. Dal momento in cui ho conosciuto quella luce, il dubbio è sparito, è sorta una certezza assoluta. Faccio fatica a spiegare ai miei amici non credenti che quando uno abbraccia la fede, tutto prende il suo posto su un piano diverso e la vita cambia: siamo sempre gli stessi, con le medesime passioni, ma guardiamo tutto, il mondo, noi stessi e gli altri, in un modo diverso. In poche parole: l’umanità si divinizza. Ha parlato di amici non credenti. Cosa ha reso diverso il suo cammino dal loro?Le nostre “filosofie” erano molto diverse: vi era chi più vicino alla spiritualità orientale, chi alle teorie psicoanalitiche, ma tutte queste opzioni erano accomunati dalla scelta di cercare un modo per arrivare alla conoscenza di se stessi. Dunque, come è successo che Cristo mi è sembrato la risposta migliore? La risposta mi è stata data nella Bibbia. Quando cercavo la risposta su chi ero, mi sono convinto che la persona di Cristo, raccontata da chi lo aveva incontrato, era quanto cercavo, seppur confusamente. Cristo ha dato risposta a ogni mia domanda, anzi è stato lui la mia stessa domanda. Lui stesso era la risposta mediante la sua vita, morte e resurrezione, l’insieme dei suoi atti, umanità ed divinità insieme. La parola che riassume tale indagare è carità. Questa dimensione non poteva essermi apportata da nessuna filosofia. Perché nessun pensiero può darmi la risposta su quell’amore che vivo nel senso più concreto del termine (l’affetto per i miei figli, i genitori, mia moglie) oppure nella sua accezione più larga, l’amore per chi incontro in strada. L’amore è una sorta di ordine della vita che mi unisce a chiunque. È la risposta concreta alle domande che non riuscivo a pormi. Lei è stato per molti anni il “suggeritore” letterario su “Le Monde”. Cosa ha significato, e significa, la letteratura per lei?La letteratura è stata per tutta la mia vita, prima e dopo la conversione, qualcosa di molto importante. La dividerei in due capitoli: quella che mi ha aiutato direttamente nella mia progressione spirituale e che definisco cristiana – Claudel, Péguy, Bernanos –, e quella indirettamente cristiana, perché veramente umana. I tre autori che ho citato hanno portato, ciascuno da par suo, dei mattoni alla costruzione dell’edificio della mia conversione. Per tutta la vita Péguy è stato un militante: da socialista è diventato militante di Cristo quando ha compreso che non può esistere nessun progresso umano che non poggi sulla pietra angolare di Cristo. In Claudel vi era una fede capace di spostare le montagne. Autore di un misticismo fiammeggiante, era portatore di un cristianesimo combattivo, capace di far fronte a quanti osteggiano la Chiesa. Leggere i suoi commenti alla Scrittura è stato un vero giubilo. Parlava anche di romanzieri non cristiani decisivi nel suo itinerario…Sì. Penso a Marcel Proust, la cui scrittura è stata per me una rivelazione della psicologia umana. Infatti il Vangelo non arriva su una materia morta, ma su una massa viva – l’uomo, la donna! – di psicologia, di affettività, di bene e di male, di passioni. Nella sua Ricerca del tempo perduto Proust ha descritto tutto ciò in maniera mirabile. Leggerlo è stata una sorta di rivelazione, non nel senso di Rivelazione divina, ma di svelamento dell’umano. Niente della fede cristiana ci può far fare economia dell’elemento umano. Essere cristiano significa essere aperti al Mistero così come si manifesta nell’uomo concreto.​​​​​
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