sabato 7 ottobre 2023
Oggi “Il Lombardia” sulla tratta Como-Bergamo, che in passato era un Giro: «Ci sono i cicli ma investite poco su scuola e impianti Rimpianti? La maglia iridata del ‘73, ma fui felice per Gimondi»
Un'immagine di Eddi Merckx

Un'immagine di Eddi Merckx - ,

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Anche “Il Lombardia” che si corre oggi sulla tratta Como-Bergamo era un Giro, nel senso che così era conosciuto ed Eddy Merckx così l’ha vinto. Per due volte, su nove partecipazioni, con due secondi, un terzo, un quarto e due sesti posti, oltre ad una squalifica nel 1973 per doping per norefedrina, causata dall'utilizzo di Mucantyl, un farmaco prescrittogli dal medico societario al fine di curare una forma di bronchite. Vittoria cancellata finita a Felice Gimondi.

Per il belga multa di 150 mila lire e un mese di squalifica. Però, al netto di tutto questo, i numeri parlano ancora una volta per questo fenomenale atleta: nove partecipazioni, mai sotto il sesto posto. È considerato a ragione il Pelé o il Maradona del ciclismo. L’Agostini o il Valentino Rossi delle due ruote rombanti. È chiaramente un’unità di misura del talento e di vittorie, un modo di dire e anche una speranza di un ciclismo passato ma mai sorpassato. Un Cassius Clay a pedali per dire che Eddy Merckx è un grandissimo dello sport tutto, una leggenda vivente, che dalla sua ha numeri da capogiro e un palmarés che lo rende unico. Sornione e riservato, a tratti schivo con chi non conosce.

Poi, come quando era in sella alla sua Colnago (prima) o ad una De Rosa (dopo), e una volta prese le misure non ce n’è più per nessuno. Lui va via spedito come una locomotiva, anche se Eddy può vantare anche una fermata della metropolitana (a Bruxelles, linea 5, dal 2003, ndr). «Forse hanno anche esagerato – dice oggi sornione e compiaciuto -, ma per i miei connazionali sono importante», per i belgi è secondo solo al re. La prima vittoria il 1° maggio 1962, a Hal. Il percorso sfiora la Zwarte Madonna, la famosa Madonna Nera, ai cui piedi si inginocchiò Carlo V. Alla vigilia di questa corsa Eddy chiede come si conviene in quegli anni il via libera ai suoi genitori. Se fosse per lui pianterebbe la scuola per dedicarsi anima e corpo solo alle due ruote. «Se solo potessi allenarmi tutti i giorni come fanno i miei amici…». «Se vinci, potrai scegliere di fare quello che vorrai», gli dicono papà Jules e mamma Jenny. Vincerà!

Era insaziabile e ingordo, spietato e incontenibile.

L’appetito mi è venuto mangiando. Finché la figlia di un corridore mi ha soprannominato “il Cannibale”. Perché - diceva - ai miei avversari non lasciavo che le briciole.

Nonostante 525 vittorie, lei ha qualche rimpianto?

La maglia iridata di Barcellona, quella del Montjuïc vinta da Felice Gimondi. Persi per colpa di Freddy Maertens, giovane rampollo belga, che fece il furbo pur di farmi perdere, ma quello che mi consolò fu che a vincerla fu Felice. Quella maglia iridata gliela avrei data io con le mie mani, perché nessuno più di lui la meritava. Glielo dice uno che se non gli avessero corso contro, quel giorno avrebbe vinto: sicuro!

Quel giorno era il 2 settembre 1973: circuito del Montjuïc a Barcellona.

Maertens mi giocò un brutto scherzo… Corse per farmi perdere, fece di tutto per inseguirmi ad ogni mia progressione. Fece il gioco di Ocaña e Gimondi e la cosa non mi è ancora andata giù.

È la sconfitta che più le brucia?

Sicuramente sì.

Cosa di quel giorno le è rimasto più impresso?

In verità mi è rimasta nella mente la notte, che trascorsi insonne. Mi alzai perché faticavo a prendere sonno e trovai alzati a ridere e scherzare alcuni componenti della nazionale belga, con Maertens che sosteneva d’aver regalato il mondiale a Felice. Una sciocchezza bella e buona, una carognata fatta a me in corsa e a Felice successivamente per giustificare una sconfitta che aveva dell’incredibile.

Le manca Felice?

Mi manca sì, perché Felice era un caro amico, un vero galantuomo, un uomo leale e con una parola sola.

Le piace il ciclismo di oggi?

Moltissimo, erano anni che non si vedevano corse così belle. Dopo anni di tatticismo e algoritmi, sono tornati i corridori che osano, che seguono l’istinto.

Lei ha sempre detto che Pogacar è quello che più le assomiglia, ma per il secondo anno consecutivo Vingegaard ha vinto il Tour.

Tadej è più completo, ma il danese ha meritato, nulla da dire. Mi ha davvero sorpreso a cronometro.

Il suo giudizio su Pogacar è cambiato?

Assolutamente no, per me resta un prodigio, l’unico corridore che sulla carta può vincere tutto quello che c’è da vincere, perché ha tutti i numeri e i mezzi per farlo. Al Tour è arrivato dopo un grave incidente alla mano e la sua preparazione non era al top.

Le piace Remco Evenepoel?

È un campione, ma secondo me il Giro e il Tour sono troppo selettivi e duri per lui. Meglio che si dedichi alla Classiche di un giorno: quello è il suo terreno di caccia.

Il Tour, il prossimo anno, partirà dall’Italia (Firenze, ndr), però noi italiani non abbiamo un corridore che possa correrlo almeno da protagonista.

Sono cicli e bisogna avere anche un po’ di pazienza. Però è altrettanto vero che qualcosa da voi non funziona: investite poco tra scuola e impianti. Slovenia e Danimarca hanno una concezione diametralmente opposta e si vede». © RIPRODUZIONE RISERVATA L’ex campione: «Ci sono i cicli ma investite poco su scuola e impianti Rimpianti? La maglia iridata del ‘73 ma fui felice per Gimondi Lo sloveno Pogacar sarà il nuovo “Cannibale”» Eddy Mercks Il campione Tadej Pogacar in una volata vincente all’ultimo Tour de France / Epa

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