domenica 7 febbraio 2021
“La croce e la via” è la nuova prova del poeta e narratore che qui ripercorre la salita al Golgota nella duplice prospettiva di Cristo e di un uomo di oggi ossessionato dal mito del successo
Lo scrittore Daniele Mencarelli

Lo scrittore Daniele Mencarelli - -

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I cipressi di Bolgheri lo avevano già capito. Quando, in Davanti San Guido, il professor Carducci rivendica di essere diventato una persona stimata, per un istante è come se gli alberi trattenessero il fiato per rendere ancora più solenne la loro constatazione: «Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’». Tormentato dalle apparenze, imprigionato nei meandri della carriera, a tal punto incapace di riconoscersi che, in mancanza del riconoscimento altrui, teme di non essere più nessuno. I cipressi non giudicano, perché anche quella sofferenza è comunque reale. Fa sanguinare il cuore, lasciandolo ancora più spossato nelle rare occasioni in cui il «pover uom» si rende conto di quanto siano meschine le sue preoccupazioni. È questa la condizione in cui si trova l’anonimo protagonista della prima tra le due sequenze di cui si compone La croce e la via di Daniele Mencarelli (San Paolo, pagine 128, euro 12,00, con le immagini di Luca Moscatelli), singolare esperimento tra liturgia e drammaturgia che porta ancora una volta alla ribalta uno degli autori più interessanti e apprezzati del momento.

Impostosi inizialmente come poeta (da peQuod è disponibile Tempo circolare, che raccoglie la sua produzione in versi), Mencarelli ha esordito in narrativa nel 2018 con La casa degli sguardi, al quale lo scorso anno ha fatto seguito, sempre da Mondadori, Tutto chiede salvezza, il romanzo che, oltre a essere entrato nella cinquina dello Strega, si è aggiudicato il premio Strega Giovani. Si tratta del secondo pannello di una trilogia di impianto autobiografico al cui completamento Mencarelli sta già lavorando e rispetto alla quale La croce e la via svolge un ruolo tutt’altro che marginale. Siamo di fronte a una Via Crucis, come è evidente fin dal titolo, solo che i due termini vengono scomposti così da indicare due percorsi differenti. Separati, ma non necessariamente in contrasto, se è vero che la «croce» è portata dall’innominato arrivista rinchiuso nella smania della propria affermazione, mentre la «via» è propriamente quella del Calvario. In La croce e la via a trovare un punto di equilibrio sono anzitutto gli strumenti espressivi di cui Mencarelli si serve solitamente in modo alternativo (ma i lettori di Avvenire sanno bene come nei suoi commenti riecheggi sempre la consapevolezza del poeta e come la sua poesia non si sottragga mai al confronto con il presente).

La prima sezione, articolata nella scansione canonica delle quattordici “Stazioni”, parla la lingua della prosa, che è poi l’unica con la quale sembra avere familiarità l’arrogante protagonista educato all’«arte del dominio». Protetto dal suo abito su misura, è un manager spietato, ingenuamente convinto che la sua ora non possa che risolversi se non in un «delirio da successo». Nel corso della riunione decisiva, però, rischia di trovarsi scalzato da un avversario imprevisto, uno che indossa sì «un completo dozzinale», ma ha dalla sua un genio incontestabile, una «fame» che gli infonde coraggio. La sconfitta è evitata per un soffio, e solamente al prezzo di un accordo sottobanco che condanna il trionfatore a una solitudine ancora più amara e sconvolgente: «Questo vuoto cosa chiede allora? Perché la vittoria non mi colma?». La «via» riparte da qui, dal fondo di un abisso che può apparire insensato e che, proprio per questo, rivela la terribile convinzione che la verità sia tanto intollerabile da dover essere crocifissa.

La seconda parte del libro di Mencarelli ritrova il ritmo della poesia e torna a seguire l’andamento della Via Crucis che conosciamo, tra cadute e incontri, celebrazione degli affetti e dono di sé per la redenzione. «Padre del cielo / è al tuo volto che penso / è al tuo aiuto che credo / io che sento svanire le mie forze / e più non ricordo nemmeno il mio nome», dice questo Gesù che rimane «adorato figlio» nello sguardo della Madre e si fa «scudo e insieme la bandiera» sul panno della Veronica. Per i soldati che lo spogliano delle vesti il suo è «un mistero tra messia e buffone», ma quella voce resta indimenticabile, è la stessa voce che «tra viscere e cuore / ancora parla, ancora vibra» secondo la testimonianza di Simone di Cirene. Quattordici Stazioni questa volta non bastano a contenere per intero la vicenda del «figlio ridotto a triste scempio». La sua storia resterebbe imperfetta se a coronarla non intervenisse l’avvenimento della Risurrezione, l’ingresso nel «regno dove nulla soffre / e a morire è solo la morte». Dove tutto è finalmente dimenticato e perdonato: le illusioni perdute, le ambizioni sbagliate, la ferocia sorda del consiglio di amministrazione e il mormorio sconsolato dei cipressi.

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