mercoledì 5 luglio 2023
Il regista iraniano reso celebre vent’anni fa da “Viaggio a Kandahar”, presenta il suo nuovo lavoro “Talking with rivers” al Sole Luna Film Festival di Palermo
Makhmalbaf: «Il mio nuovo film illuminerà Kabul»

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C’è tanta poesia, bellezza, verità e dolore nei film di Mohsen Makhmalbaf. Il regista iraniano, che più di 20 anni fa aprì gli occhi dell’Occidente con l’indimenticabile Viaggio a Kandahar, ha scelto il Sole Luna Doc Film Festival per presentare ieri a Palermo in anteprima mondiale (la giornata inaugurale del festival ha fatto sold out) il suo nuovo film.

Pieno di storia, di durezza e di desiderio Talking with Rivers unisce documentario e finzione, con numerosi materiali di archivio di film diretti da Mohsen Makhmalbaf, dalla moglie e dai figli. Il film è la storia di un uomo esiliato che, di fronte a un fiume, inizia una lettera orale, dedicata a suo fratello: entrambi sono metafora di due Paesi che prima erano un unico Stato, l’Iran e l’Afghanistan e che ora sono divisi. Incontriamo Mohsen Makhmalbaf nella sede siciliana al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Talking with Rivers è un film sull’indissolubilità della libertà e dell’amore soffocati dal potere e dal dominio.

«Questo film per me è la storia di due Paesi come l’Afghanistan e l’Iran che a metà del 1700 si sono divisi. Avevano differenti risorse, perché l’Iran aveva scoperto di avere il petrolio, mentre il cuore dell’Afghanistan era l’agricoltura. Entrambi però avevano subito la guerra, il fondamentalismo, l’egemonia americana e il dominio russo. Volevo raccontare le donne sotto la pressione del regime, la sofferenza per l’ignoranza, il potere maschile, la violenza. Solo se si conosce questa storia si può comprendere il senso di questa tragedia umana interminabile».

La nostra cultura occidentale ci impedisce di capire fino in fondo questa tragedia. Cosa ha raccontato di più del suo Paese nel suo cinema?

«Non passa giorno senza che non pensi alle centinaia di migliaia di persone che muoiono di fame, alle madri che lottano per la vita dei bambini, alle donne che non possono andare a scuola né tantomeno andare a lavoro, alla mancanza della loro libertà: ma penso anche a quegli uomini che sono poveri perché non hanno lavoro e vivono sotto il controllo dei terroristi. Soffro per tutto ciò: questa è la ragione per cui insieme alla mia famiglia e ai miei amici abbiamo cercato di aiutare a fuggire dai talebani soprattutto gli artisti afghani, che rischiavano di essere uccisi. Se qualcuno pensa che questa realtà sia lontana dall’Occidente si sbaglia. Siamo tutti essere umani, siamo ognuno parte dell’altro, come possiamo dimenticare questa sofferenza?».

In Talking with Riversci sono numerose scene dei film diretti da tutti i membri della sua famiglia.

«Negli ultimi 13 anni abbiamo girato 10 film sull’Agfhanistan, sui rifugiati, sul desiderio, sul fondamentalismo, sulla sofferenza, sulla modernità. In un film diretto da mia figlia Hana, Buddha Collapsed out of Shame, ho voluto raccontare anche i bambini che copiano gli adulti e compiono aberrazioni. Siamo stati attraversati da fondamentalismi diversi che hanno sempre cambiato l’anima delle persone. In questo film ho cercato di illuminare il buio di queste tragedie».

C’è una parola che attraversa sempre il suo cinema: speranza.

«Di cosa abbiamo più bisogno? Di speranza senza la quale non si costruisce la società. E chi soffre ha più bisogno di speranza. Bisogna combattere i mostri intorno a noi. Ho vissuto in vari Paesi perché sin dall’inizio il regime iraniano ha cercato di uccidermi. Diciotto anni fa mi sono trasferito in Iran dove sono rimasto due anni e ho organizzato workshop per giovani film makers e in particolare per una scuola composta da 300 studentesse. Hanno fatto di tutto per uccidermi e perfino un terrorista, durante un mancato attentato, ha perso la vita. Poi ci siamo rifugiati in Tagikistan perché si parla il persiano e anche da lì sono dovuto scappare perché stavano per arrestarmi. In Francia pensavo di essere al sicuro ma un giorno a Parigi la polizia mi ha assegnato sette guardie del corpo perché era venuta a conoscenza di un gruppo di terroristi che voleva uccidermi. Per questo il mio è un mondo piccolo, non posso tornare in Iran, in Armenia o in Turchia né volare sopra quel cielo, ma ho continuato a fare film e spero di continuare a girarne».

Cosa è il cinema per lei?

«Non faccio cinema per girare film, ma la macchina da presa è uno strumento per cambiare il mio mondo e quello che mi circonda. Anni fa ho girato Alfabeto afghano perché c’erano migliaia di rifugiati bambini, che per 8 anni consecutivi non sono hanno potuto frequentare la scuola e sostavano di fronte alle aule senza potere accedere all’ingresso: pur essendo nati in Iran, non avevano il visto. Ho girato questo film e l’ho fatto vedere al primo ministro convincendolo quanto fosse necessaria la scuola per questi bambini. Questo per me è fare cinema, uno specchio che manifesta il nostro volto e quello della società e che può spingere a cambiare e a correggerci».

Quando tornerà a girare?

«Ho in testa tanti progetti. Ho incontrato gli studenti di cinema visitando tutti gli spazi della scuola del Centro Sperimentale di Cinematografia, dal suo nuovo teatro di posa fino alle sue aule: da sempre ho il desiderio di girare un film dentro un teatro di posa».

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