mercoledì 9 marzo 2022
Arrivato undicenne ad Auschwitz, ne uscì vivo e traumatizzato. Per mezzo secolo ha taciuto, facendo anche perdere le sue tracce. Ora Frediano Sessi lo ha trovato e si è fatto raccontare la sua storia
Luigi, il bambino di 90 anni che ha provato a dimenticare il lager
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«Non voglio covare odio né suscitare compassione. Per non impazzire, ho nascosto sempre la tragedia che ho vissuto, cercando di essere un uomo normale come tanti altri». Luigi Ferri è uno dei pochi bambini sopravvissuti ad Auschwitz: insieme a Primo Levi fu anche tra i pochissimi prigionieri italiani presenti all’interno del campo al momento della liberazione, il 27 gennaio 1945. Ad appena undici anni era stato internato a Birkenau e pochi mesi dopo il ritorno in libertà aveva avuto anche il coraggio di raccontare a una giuria polacca i crimini a cui aveva assistito durante la prigionia. Parlò dell’esistenza delle camere a gas in una deposizione ufficiale di fronte a uno dei primi tribunali internazionali d’inchiesta. Ma da quel momento in poi fece perdere le sue tracce, relegando nell’oblio l’esperienza che aveva segnato per sempre la sua vita. Provò a scordarsi di avere il numero B7525 tatuato sul braccio sinistro e rimase in silenzio, per cercare di allontanare quel trauma indicibile e costruirsi un’esistenza normale. Col tempo è diventato quello che lo storico Bruno Maida, autore di approfondite ricerche sui minori vittime dei nazisti, ha definito
«il bambino scomparso di Auschwitz», l’unico dei venticinque italiani sopravvissuti di età inferiore ai quattordici anni di cui non si è saputo più niente.

Per decenni gli storici, gli studiosi e i centri di ricerca hanno setacciato invano gli archivi per trovarlo e raccogliere la sua testimonianza, che è infatti una delle poche mancanti anche nel monumentale archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea. Eppure, nelle pubblicazioni ufficiali del Museo di Auschwitz Luigi Ferri è l’italiano più citato dopo Primo Levi. Oggi, giunto alla soglia dei novant’anni, ha accettato di parlare della storia del bambino in alcune conversazioni con Frediano Sessi, uno dei più autorevoli studiosi italiani della Shoah, che l’ha raccontata nel libro Il bambino scomparso. Una storia di Auschwitz( Marsilio, pagine 160, euro 16). Sessi ci ha spiegato di essere arrivato a lui quasi per caso, avvicinandolo in punta di piedi. «Frequento gli archivi di Auschwitz ormai da più di trent’anni e tempo fa stavo cercando testimonianze di ex deportati italiani che, dopo la liberazione del campo, erano rimasti nei padiglioni attrezzati a infermeria per recuperare le forze e rimettersi in salute», ci ha detto. «Anche Ferri rimase a vivere per un periodo tra i blocchi infermeria del campo base e nell’archivio mi sono ritrovato per le mani il materiale inedito che lo citava. Allora gli ho scritto una lettera per chiedergli se acconsentisse di raccontare ulteriori particolari sulla sua storia ad Auschwitz. Lui ha accettato a patto che parlassimo soltanto di quel bambino che ha confinato in un angolo buio della sua mente, non dell’adulto che è diventato dopo. Mi sono trovato di fronte un uomo molto anziano con una memoria straordinaria, del tutto intatta. Ma il trascorrere del tempo non ha lenito le sue ferite e ripensare a quei giorni è tuttora un’esperienza così sconvolgente che poi necessita di qualche giorno per confinare nuovamente quei ricordi nel buio in cui li ha lasciati».

Figlio di una donna cattolica originaria di Fiume e di Julio Frisch, un ebreo di lingua tedesca, Luigi Ferri fu catalogato come "ariano" ma il primo giugno del 1944 salì volontariamente sul treno per Auschwitz per non allontanarsi dalla nonna ebrea, che venne arrestata in una retata di nazifascisti a Trieste. Un ufficiale gli disse chiaramente che poteva restare a casa ma lui la seguì, costringendo i suoi carcerieri a portarlo al binario, perché la nonna era il suo unico punto di riferimento. «Luigi era già bilingue, conosceva molto bene il tedesco ed era un bambino molto sveglio, che sapeva come cavarsela», spiega Sessi. «Quando arrivò ad Auschwitz, i primi di luglio del 1944, al campo regnava il caos assoluto. I nazisti stavano sterminando gli ebrei ungheresi a un ritmo forsennato, circa venticinquemila al giorno. Lui si salvò perché ebbe la fortuna di imbattersi nel dottor Otto Wolken, un detenuto ebreo austriaco che nella quarantena maschile di Birkenau sostituiva il medico delle SS e godeva di una certa libertà di movimento. Senza di lui Ferri non sarebbe mai uscito vivo dal campo». Wolken divenne infatti il suo angelo custode: gli spiegò le regole essenziali per cercare di sopravvivere, si preoccupò di rifornirlo di cibo e di acqua, andò a trovarlo spesso per rincuorarlo. Tra i due nacque un affetto profondo che proseguì a lungo dopo la liberazione, anche perché Ferri era rimasto orfano e il medico austriaco divenne per lui un secondo padre.

Otto Wolken è il vero eroe di questa storia. Un uomo con un profondo senso della giustizia che aggiornava di nascosto un registro dei fatti terribili che accadevano nella quarantena maschile: gli arrivi e i trasferimenti, le malattie e le selezioni per la camera a gas, oltre ai veri motivi dei decessi dei deportati. Quando si sapeva ancora ben poco sul sistema concentrazionario di Auschwitz, svelò ai giudici del processo di Cracovia molti dettagli sull’organizzazione e la vita dei prigionieri, indicando con precisione i nomi dei responsabili. «Al campo era stato incaricato di compilare rapporti scritti per i medici delle SS ed era quindi abilitato a scrivere. Di notte riponeva i documenti clandestini sotto i materassi dell’infermeria e quando aveva sentore di qualche rischio scavava per nasconderli sotto terra», prosegue Sessi, che in calce al suo libro ha riportato la raccapricciante cronaca inedita dal campo di Birkenau compilata da Wolken proprio sulla base di quegli appunti. Nel 1967 tornò ad Auschwitz insieme a Ferri per l’inaugurazione del monumento internazionale alle vittime del campo, alla quale presenziarono molti ex deportati. «Ferri aveva allora 34 anni e quel ritorno fu per lui un’esperienza assai traumatica. Accettò di farsi intervistare da un settimanale tedesco, poi fece perdere di nuovo le sue tracce per altri cinquant’anni».

Già autore di numerose biografie di vittime della Shoah, nonché curatore dell’edizione italiana del Diario di Anne Frank, Sessi ha scelto di raccontare la storia di Luigi Ferri usando un’efficacissima prima persona, attraverso la quale ha integrato la voce narrante del protagonista senza appesantirla di elementi di finzione ma al contrario, arricchendola delle conoscenze derivanti dai suoi studi. La maggior parte degli ex deportati scampati ai campi di concentramento nazisti ha scelto di non parlare del passato, di dimenticare Auschwitz per continuare a vivere e salvarsi quindi da quella 'sindrome del sopravvissuto' che li avrebbe costretti a identificarsi in modo quasi ossessivo con lo sguardo di un morto. Ma allora perché ha senso insistere nel cercare di conoscere la testimonianza anche del bambino che fu Luigi Ferri? «Non per aggiungere la sua voce a quella dei testimoni che hanno già raccontato le loro storie – conclude Sessi – bensì per riflettere su quel lungo silenzio. Soltanto ricostruendo la sua storia e quella di chi non ha mai raccontato quell’esperienza possiamo comprendere quanto è stato profondo il trauma per le singole vittime e per l’intera umanità».

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