mercoledì 13 novembre 2013
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Negli anni Settanta l’instabilità economica e politica che investiva le società occidentali indusse molti studiosi a riflettere sulle cause della crisi. Alcuni osservatori, come per esempio Samuel Huntington, sottolinearono il peso dei fattori politici, tra cui la crescita di domande «eccessive» da parte della società. Una seconda interpretazione – sviluppata soprattutto dagli epigoni della Scuola di Francoforte – si soffermò invece sulle «contraddizioni strutturali» dell’economia mista postbellica. Tali contraddizioni portavano alla luce il contrasto fra la logica dell’intervento statale e quella dell’accumulazione del capitale. Ma, oltre a generare una «crisi di legittimità», implicavano l’esplosione della «crisi fiscale» dello Stato. In sostanza, le necessità del capitalismo avanzato avevano condotto a una progressiva espansione della spesa pubblica e a un contestuale incremento dell’imposizione fiscale. Ma proprio l’aumento della tassazione finiva col mettere a rischio la sopravvivenza di un’economia di mercato. Da allora lo scenario è quasi completamente mutato, ma non è affatto casuale che Wolfgang Streeck, nel suo Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico<+tondo_bandiera> (Feltrinelli, pp. 270, euro 25), torni alle interpretazioni di allora. Nato da una serie di lezioni su Adorno tenute all’Istituto di ricerche sociali di Francoforte, il saggio ritrova infatti in quelle teorie uno strumento per interpretare il presente, e in particolare la condizione del Vecchio continente. La tesi principale di Streeck è che la crisi odierna non sia nata nel 2008, ma abbia radici profonde, che affondano proprio negli anni Settanta. In sostanza, la «crisi fiscale» non sarebbe mai davvero finita, e le diverse soluzioni adottate dalle democrazie avanzate avrebbero soltanto dilazionato l’esplosione della crisi. Negli anni Settanta alla crisi di legittimazione si rispose infatti mettendo mano alla leva monetaria, ottenendo così aumenti salariali, ma provocando anche un notevole incremento dell’inflazione e dunque nuovi problemi. Dall’inizio degli anni Ottanta, la stabilizzazione monetaria implicò invece l’avvio di una nuova fase, segnata dall’indebitamento pubblico, che si prolungò fino al 1993, quando ebbe inizio la fase dell’indebitamento privato. Ognuna di queste soluzioni, sostiene Streeck, ha funzionato, ma solo per un periodo di tempo piuttosto limitato. Si trattava infatti solo di rimedi capaci di «guadagnare tempo», in attesa che i ritmi di crescita tornassero ai livelli degli anni Cinquanta e Sessanta. Questa attesa, però, si sarebbe rivelata del tutto illusoria. E Streeck prevede che le cose non siano destinate a cambiare neppure nei prossimi decenni. Molti dei neo-marxisti degli anni Settanta ritenevano che la «crisi fiscale» dello Stato preludesse alla crisi generale del capitalismo, ma Streeck non compie lo stesso errore. A suo avviso in gioco non è infatti la sopravvivenza dell’economia capitalistica, ma piuttosto la convivenza fra democrazia e capitalismo che ha contrassegnato i sistemi politici occidentali negli ultimi settant’anni. Ed è proprio a questo proposito che il sociologo si volge criticamente verso l’Europa. Perché secondo Streeck – e il suo giudizio è quanto meno severo – l’unificazione monetaria è stata un fallimento. E perché l’unica possibilità per uscire da una crisi al tempo stesso politica ed economica passa da un ritorno alle monete nazionali, seppure ancorate a un sistema monetario flessibile. Le conclusioni di Streeck hanno sollevato in Germania obiezioni piuttosto energiche, e in particolare Jürgen Habermas – il più celebre degli eredi della Scuola di Francoforte – ha replicato che la soluzione ai problemi dell’Ue non è tornare alla sovranità degli Stati, ma procedere ulteriormente sul terreno dell’integrazione politica e verso una decisa democratizzazione delle istituzioni europee. Ma naturalmente anche questa soluzione non è così agevole da realizzare, soprattutto in una fase costantemente segnata dall’emergenza. Anche per questo la contrapposizione che emerge dalla discussione fra Streeck e Habermas – una contrapposizione che peraltro ridisegna le più consolidate geometrie politiche – è destinata ad accompagnarci a lungo. Perché è davvero molto probabile che la politica del Vecchio continente si giocherà nei prossimi anni proprio attorno alla nuova frattura tra «europeisti» e «sovranisti».
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