giovedì 27 febbraio 2014
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Una questione di dignità. Per Silverio Novelli non ci sono dubbi: «Il rispetto della grammatica nel parlare e nello scrivere è una questione di dignità personale e di riconoscimento della dignità di chi ascolta». Questo però non significa che abbiamo l’obbligo di usare un italiano forbito a casa come a scuola, in un intervento pubblico come in una chiacchierata fra amici, perché «la lingua è qualcosa di vivo e chi la parla deve avere il piacere di farla vivere secondo i contesti, senza mai farla cadere nella sciatteria». È la doppia tesi che sostiene l’ultimo lavoro di Novelli, che è giornalista e lessicografo, collabora alla sezione "Lingua italiana" del portale Treccani.it, ha al suo attivo due dizionari di neologismi e ha collaborato alla terza edizione del Vocabolario Treccani. Il suo ultimo lavoro, dicevamo, si colloca fra il manuale di grammatica, il pamphlet e il saggio di linguistica. La filosofia che lo sorregge è già tutta nel titolo: Si dice? Non si dice? Dipende. L’italiano giusto per ogni situazione (Laterza, pagine 195, euro 16). In esso, Novelli parla di dubbi grammaticali, modi di dire, costruzioni sintattiche attraverso analisi storiche, curiosità letterarie e semantiche fornendo le regole ma anche giudizi di opportunità relativi al loro utilizzo secondo le varie modalità della lingua: scritta, parlata, letteraria, social network e via dicendo.A prima vista sembra la teorizzazione del relativismo grammaticale.«Le norme linguistiche dell’italiano si sono costituite nel ’500 con le opere di Pietro Bembo, che considerava Dante, Boccaccio e Petrarca dei modelli assoluti. Su queste basi nel 1612 esce il primo Vocabolario della Crusca. Testo che contempla solo l’italiano letterario escludendo ogni forma di lessico pratico, anche quello della tecnica e delle scienze. E noi abbiamo ereditato nei secoli una grammatica teorica e fortemente normativa».Lontana dalla lingua parlata?«Nei fatti l’italiano come lingua è rimasto fino all’Unità d’Italia quasi esclusivamente letterario e riguardava il 2% delle persone. La lingua parlata erano i dialetti. Camillo Benso conte di Cavour, per fare un esempio, si esprimeva in piemontese e in francese: quando si trovò a parlare nel primo parlamento fece molta fatica a usare l’italiano».Poi sono arrivate le scuole del Regno e tutto è cambiato?«Con molta lentezza. La maggioranza degli italiani nelle trincee della Prima guerra mondiale parlava nei fatti lingue diverse. Non a caso le grammatiche della prima metà del ’900 fornivano norme molto rigide proprio per modellare la lingua unica e hanno funzionato anche per questo».Un coperchio che adesso sembra saltato.«L’italiano di oggi, a differenza di quello di solo qualche decennio fa, è parlato da tutti, non solo da una ristretta élite. È normale che vi siano rimescolamenti, ricchezza e confusione insieme».E le regole?«C’è un insieme di regole che riguardano la costruzione della lingua, che sono accettate da tutti, anche senza saperlo. Poi vi sono le norme scritte, quelle delle "Grammatiche", per intenderci. E posso dire, dai numerosi quesiti linguistici che giungono alla Crusca e alla Treccani, che si tratta di regole che tanti italiani vivono come elemento fondante della lingua e dell’identità nazionale. Oggi, forse più di qualche tempo fa, si sente il bisogno che qualcuno fornisca indicazioni precise: si può dire o non si può dire?».Secondo lei c’è una spiegazione?«Non sono un sociologo, né un antropologo, ma credo che dipenda dal clima conflittuale, spesso becero e sbracato che si è venuto a creare negli ultimi decenni lì dove c’è tanta lingua parlata. E questo ha creato confusione. Una volta chi parlava pubblicamente sapeva di dover essere autorevole dal punto di vista linguistico. Oggi, invece, si vuole presentare sempre più simile all’italiano medio in una sorta di livellamento grammaticale verso il basso».La politica cattiva maestra?«Non solo la politica, naturalmente. Ma nel caso della politica, con la scusa di abbandonare il cosiddetto "politichese", con le sue parole oscure e farraginose, è nata una nuova retorica che applica a concetti politici ed economici parole d’uso comune, finendo per svuotarle di senso dissimulandone il vero significato. Pensiamo a "rottamazione", a "riforme", a "ripresa"...».Tutto è partito dal "parla come mangi"...?«Sì. E io dico: parla come mangi... ma fallo a casa tua. E comunque devi saper parlare e scrivere in maniera adeguata. Se parli e scrivi come mangi in ogni occasione o non sei all’altezza, o non sei rispettoso dei tuoi interlocutori o lo fai per espediente retorico».Insomma, la grammatica è questione di rispetto?«Se non curo la mia dignità di parola non rispetto il mio dovere di entrare in comunicazione con gli altri in maniera completa, comprensibile, non ambigua... E perdo in autorevolezza. Allo stesso tempo, però, non devo dimenticare che lo spazio linguistico è multistrato, si adatta alle situazioni, è sensibile agli usi, alla modernità. In questo senso il mio libro può stare accanto a una grammatica tradizionale per fare una sintesi fra i vari "strati" e provare a giungere a un’unità finale, che, come sostiene un linguista del calibro di Luca Serianni, possiamo individuare nella lingua di un buon articolo di giornale».Insomma, le regole servono.«Servono sempre. Soprattutto vanno rispettate le convenzioni ortografiche che sono il cuore della lingua. Anche la punteggiatura è fondamentale così come la consequenzialità sintattica, se vogliamo essere compresi per quello che diciamo e scriviamo. E poi bisognerebbe smetterla con certe dilatazioni semantiche, con le parole usate a sproposito...».Esempio?Il primo che mi viene? È legato all’uso che si fa nel giornalismo sportivo della parole "importante": "un’azione importante", "un’atmosfera importante", "un pubblico importante"... Così si perde il senso delle parole, si genera confusione, si insegna a parlare a sproposito, si banalizza la lingua...».
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