sabato 19 febbraio 2022
Nella raccolta di studi curata da Claudio Tugnoli l’approccio filosofico su base storica e antropologica, può aiutare a comprendere queste esperienze multiformi e complesse comuni a diverse fedi
Particolare dell'Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini, Roma, Santa Maria della Vittoria

Particolare dell'Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini, Roma, Santa Maria della Vittoria - Sailko/WikiCommons/CC-by-3.0

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È vero che ogni religione ha la propria mistica? Oppure il misticismo è un fenomeno meta-religioso, antropologico, trasversale, un’esperienza che si ritrova, con poche varianti, quasi identica nei più diversi contesti culturali? Come si distingue il mistico dei culti dionisiaci dell’antico mondo greco da colui la cui anima ascende nei mondi superni, come previsto dalle scuole pitagoriche e neoplatoniche? Cosa differenzia il mistico sufi, nelle correnti islamiche eterodosse persiane e turche, da un ebreo qabbalista medievale o dal rabbi cui un magghid, un angelo, appariva all’apice di una notte di studio? Che dire poi delle grandi mistiche cristiane che fiorirono tra Rinascimento ed età barocca, immortalate in estasi, una per tutte, nel marmo del Bernini? E che ne sappiamo dei viaggi extrasensoriali degli sciamani o di guru e santoni delle religioni orientali come induismo e buddhismo (ma esistono tanti buddhismi), tesi a portare l’individuo nell’estinzione nirvanica che precede, sostiene e segue l’esile e temporanea isola del mondo. Se studiato tenendo conto di psicologia e psicoanalisi, il fenomeno mistico non appare, più spesso che non, assai prossimo ad alcune patologie, a disturbi anoressici, persino alla follia?

Apparirà paradossale, ma proprio uno studio filosofico, su base storica e documentata dall’antropologia, ossia un approccio razionale può aiutare a comprendere, se non a spiegare, queste esperienze che di per sé non si offrono a facile comunicazione né a immediata traduzione per chi non le ha provate. Che poi i mistici siano, quasi sempre, persone religiose o ispirate dalla fede e dai testi sacri è un altro aspetto oscuro del fenomeno, dato che le tre religioni monoteiste hanno spesso espresso sospetti e riserve, quando non espliciti divieti, verso questo tipo di spiritualità, così borderline e incline a deviare nella superstizione o nell’eresia, a sconfinare in un’eccentricità fuori controllo. Forse proprio per tutto ciò le “vie della mistica” costituiscono un campo di ricerca tanto affascinante quanto ostico, un semovente campo flegreo, dove molti storici preferiscono non addentrarsi. Per timore di uscire dalla solidità dei fatti riscontrabili e comparabili o per paura di venir fagocitati dal proprio stesso oggetto di studio? Il sacro, di cui il mistico testimonia, non ha a che fare con la struttura di una religione, i suoi dogmi o le sue istituzioni; è piuttosto qualcosa che spinge al di là di quella struttura e di quei dogmi, e non raramente li contesta, li sfida. La mistica infatti può essere non solo pre- ed extra-, ma persino anti-religiosa.

Per tutte queste premesse, complesse e problematiche, il volume Le vie della mistica curato dal filosofo Claudio Tugnoli e frutto di un progetto dell’Associazione Antonio Rosmini ( Tangram, pagine 352, euro 21,00) rappresenta uno degli libri recenti più innovativi in questo arduo campo d’indagine. Lo compongono sette saggi, volti a esplorare i caratteri peculiari dell’esperienza mistica dall’antichità alla new age, dalle tre religioni monoteiste ad alcuni famosi casi del Tirolo, cui si aggiunge uno stimolante studio neuropsichiatrico. Sullo sfondo, quasi a ricostruire la non lunga storia di approcci interdisciplinari a questa scomoda materia, c’è un mosaico di studiosi del calibro di William James ed Ernesto De Martino, di Raimon Panikkar e Michel Hulin o, più sensibili a una dimensione religiosa e filosofica, Elémire Zolla, Pier Cesare Bori e Roberto Celada Ballanti, attenti a quella dimensione di scambio e dialogo interreligioso che rende, intuitivamente, la mistica un terreno comune alle diverse fedi, più di quanto avvenga tra le diverse confessioni e correnti dentro una medesima religione. Non diceva già Niccolò Cusano che «la verità è varietà»? Se ciò può valere sul piano teologico, a maggior ragione vale sul piano esperienziale e segnatamente di quell’esperienza del Divino che chiamiamo mistica. Nella sua lunga introduzione di natura fenomenologica, Tugnoli ampia lo sguardo e, sfidando ogni chiusura dogmatico-identitaria, contamina il discorso sulla mistica con i limitrofi ambiti della patologia psichica, della veggenza, dell’oniromanzia e del "pensiero selvaggio", dove vediamo di frequente convergere due sfere solo in apparenza divergenti o contrapposte, quella del dolore e della sofferenza da una parte e quella della gioia e del piacere dall’altra. Come i due estremi del cerchio eracliteo, dolore e piacere paiono fondersi nell’esperienza mistica, quasi che l’interpenetrazione di anima e corpo (di psiche e materia o di mente e massa cerebrale) venisse al prezzo di una consunzione reciproca, che è al contempo penosa e gioiosa, dolorifica e orgasmica. Il fuoco ne è simbolo. L’estasi, appunto, che annulla il dolore nel piacere e fa sentire il piacere come esaurimento di forza cosciente e svuotamento fisico. Scriveva Giovanni della Croce: «L’unione d’amore si può raggiungere solo attraverso la contemplazione oscura, in cui l’anima è compenetrata dalla divinità in modo occulto, al punto da non essere in grado di trovare parole per esprimerla».

Non si fatica a capire perché alcune tradizioni religiose, come il giudaismo rabbinico, abbiano da sempre messo in guardia dal ricercare tali esperienze, fossero pure viaggi nel pardes, il giardino paradisiaco. Tre maestri su quattro ne escono male, insegna il Talmud; figuriamoci chi maestro non è. Oppure pensiamo alla freddezza con cui, sin dall’inizio, le autorità ecclesiastiche hanno guardato ai fenomeni mistici di Medjugorje. Per tacere dell’aperta ostilità che l’islam riserva al sufismo, i cui riti e circoli sono ancor oggi sospettati di eterodossia e devianze. Eppure, la mistica resta fondamentalmente un fenomeno religioso e nessuna religione, al proprio interno e nel corso del tempo, è mai stata priva di individui, donne e uomini, che hanno reclamato un rapporto immediato, diretto e travolgente, con il Divino. Nel suo saggio Il sacro, oltre cent’anni fa, Rudolf Otto tentò di definirlo come l’incontro con il myterium tremendum, dal quale si esce feriti, claudicanti (direbbe Haim Baharier) e impediti persino a raccontarlo. Eppure proprio questa dimensione pato-logica del misticismo resta quella più intrigante, perché eleva il pathos ossia la sofferenza e la contigua gioia totalizzante a luogo privilegiato dell’incontro più sublime. Che la filosofia e la teologia debbano restare sulla soglia e limitarsi a darne ’“solo” una fenomenologia, è nell’ordine delle cose. O almeno, delle cose mistiche,

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