sabato 17 dicembre 2016
Sulla rivista inglese “Granta” il popolare scrittore racconta la sua ribellione alla rigida educazione religiosa dell’infanzia e il lungo cammino alla riscoperta dei valori spirituali
Ken Follett è nato a Cardiff, in Galles, nel 1949

Ken Follett è nato a Cardiff, in Galles, nel 1949

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Sulle prime si è tentati dall’ipotesi dell’omonimia: Ken Follett? Quel Ken Follett? Autore di fama mondiale e gran facitore di best seller, non si discute, ma non esattamente il tipo di scrittore che ci si immagina di trovare su Granta, la sussiegosa rivista britannica che da oltre trent’anni si propone – spesso con successo – di esplorare le nuove tendenze della letteratura contemporanea. Salman Rushdie è di casa, per esempio, e in tempi più recenti anche Stephen King è stato ammesso nel club, sia pure in un fascicolo interamente dedicato al racconto dell’orrore. Ma perché Follett, e perché proprio in questo numero, che stranamente appare privo di un titolo complessivo? La risposta viene dall’editoriale della direttrice Sigrid Rausing che, prendendo spunto dalla mania dell’estate scorsa (si giocava a Pokémon Go, come passa il tempo), spiega come l’idea iniziale fosse di dedicare una pubblicazione ai Followers, ossia ai “seguaci”. Ma basandosi sull’ipotesi che «si possa scrivere di un culto solo dopo averlo abbandonato», alla fine si è preferito omettere qualsiasi indicazione, in segno di libertà.

La sezione principale ospita, non a caso, le testimonianza personali di autori cresciuti in contesti di forte integrismo religioso. Tra di loro c’è anche Follett, classe 1949, che finora non aveva mai voluto raccontare dell’educazione ricevuta in famiglia. Siamo nel Galles degli anni Cinquanta e i Follett appartengono a una denominazione protestante particolarmente rigorosa, conosciuta come i Plymouth Brethren (“Fratelli di Brethern”). Per essere considerati peccatori, dice, non c’era bisogno di frequentare il cinema o altri luoghi deputati allo svago. Era più che sufficiente seguire la funzione religiosa nella cappella di una congregazione diversa dalla propria: il padre di Follett ci era cascato da ragazzo e per poco non era stato diseredato.

Il giovanissimo Ken, invece, aveva tentato di aggirare l’interdetto sulla musica procurandosi un disco di rock cristiano di provenienza statunitense, ma non aveva conosciuto grosse crisi fino a quando, all’università, non si era imbattuto nel razionalismo filosofico. «Al momento della laurea ero ormai un ateo – ammette –. E di quelli arrabbiati». La storia, fin qui, sembrerebbe prevedile, ma il colpo di scena viene adesso. Per il suo lavoro di narratore Follett comincia a documentarsi sull’architettura, visita qualche cattedrale, ne resta affascinato. Il risultato è uno dei suoi libri di maggior successo, I pilastri della terra (1989). Ambientazione medievale e denunce di oscurantismo a non finire, eppure almeno uno dei personaggi, il priore Philip, è un cristiano come a Follett sarebbe piaciuto incontrarne, preoccupato della felicità dei fedeli «in cielo come in terra». Da lì a qualche anno, seguendo l’impegno politico della moglie Barbara Hubbard, laburista, lo scrittore si accorge che credenti di questo tipo esistono, e sono meno rari del previsto.

Ma la vera sorpresa è un’altra. Nel Regno Unito la partecipazione alle cerimonie religiose anglicane fa parte dei doveri di un parlamentare e della sua famiglia. «Mi sono accorto che andare in chiesa mi piaceva e ho preso a farlo anche quando non ero obbligato», confessa oggi Follett, che parla di sé come di un «ateo caduto». In Dio continua a non credere, ma nelle solennità del luogo e del rito trova una forma di conforto, di «pace spirituale». A volte, conclude, «ci vuole un lungo viaggio per comprendere le verità più semplici».

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