venerdì 29 marzo 2019
A colloquio col music maker italiano autore di tanti successi. «Ho suonato tutti i generi e firmato 500 canzoni. Con la Bertè è una storia speciale, interprete rara come Mannoia e Vanoni»
Mario Lavezzi: «Le mie prime 50 primavere artistiche»
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Mario Lavezzi, per brevità; “quando sei tu la musica”. L’unico vero “music maker” riconosciuto in Italia (dai tempi del Telegatto assegnatogli nel 1983). Un percorso artistico intrapreso sulla scia degli «archetipi» universali, Quincy Jones e Mike Oldfield, che dura da mezzo secolo di onorata e soprattutto variegata carriera. Gran debutto con Il primo giorno di Primavera, brano che ha appena compiuto cinquant’anni (pubblicato il 21 marzo 1969), scritto con Mogol e Cristiano Minellono e portato al successo (dopo anonima versione cantata da Vanna Brosio) dai Dik Dik. «Quei giorni di marzo del ’69 ridevo dalla gioia per un successo inaspettato... Primo giorno di primavera era in cima all’ hitparade. Primo in classifica quando ancora i dischi si vendevano e il vinile non erra un oggetto di culto, vintage come adesso che perfino l’ultima fabbrica di cd in America ha appena chiuso i battenti», attacca come un rif potente alla sua chitarra Lavezzi.

Con sobria eleganza ci accoglie da capitano di lungo corso del cantar leggero nella sala nautica della sua bella casa, in via Solferino, cuore di una Milano poetica, ancora buona da ascoltare e da riscoprire. In Primo giorno di primaverac’era già il seme dell’Aiuolarigogliosa della sua produzione melanconica, romantica, ma soprattutto multiforme e sterminata. Il suo ciclo produttivo, a quasi 71 primavere (le compie l’8 maggio), continua a pieno ritmo, tra progetti di musical e nuovi dischi da inventare, cambiando sempre un po’. «Oggi, stimo molto Tiziano Ferro, Marco Mengoni con il quale mi piacerebbe collaborare - , ma anche Jovanotti o tra i rapper Fabri Fibra - al di là che mi ha omaggiato con la cover divertente La pula bussò - perché sono tra i pochi che hanno ancora il coraggio di cambiare registro in corso d’opera e di non ripetere e fare il copia e incolla - come capita alla stramaggioranza dei giovani artisti - del brano o la filastrocca che li ha portati al successo».

Eclettismo lavezziano che nei primi anni ’60 era semplicemente il ragazzo del Giambellino, l’adolescente che strimpellava con passione la gaberiana La ballata del Cerutti. Il garzone della bottega degli artisti, uscito dalla scuola musicale, la Civica di Milano, che amava i Beatles («li avevo ascoltati a Genova, eravamo appena 3500 spettatori per assistere al concerto di quei geni di Liverpool... stregato») e i Rolling Stones («loro hanno portato la tecnologia nella musica, usavano il primo distorsore ») e li eseguiva con il suo primo gruppo, I Trappers. «Eravamo io, Bruno Longhi che poi è diventato un noto giornalista sportivo di Mediaset, Mimmo Seccia e Gianfranco Longo che presto vennero strappati da I ragazzi della via Gluck di Adriano Celentano. E ancora Teo Teocoli, molto prima che esplodesse nella brigata dei comici del “Derby” e Tonino Cripezzi, con il quale entrai nei Camaleonti, e che ai tempi non aveva ancora i soldi per comprarsi una tastiera e suonava la clavietta... Ci ritrovavamo per le prove nella cantina dell’oratorio di via Vignoli. Per una coca-cola e un panino eravamo disposti a suonare anche un giorno intero». Concerti che andavano dai matinée per gli studenti, fino a notte fonda, nei locali del quadrilatero della moda di allora: «Tricheco, Copacabana, Santa Tecla, Ciao Ciao, ma anche il Pipes - versione milanese del Piper di Roma e il Bar Dom dove iniziammo a farci conoscere... Suonavamo tutti i generi, ma a volte capitava che i gestori dei locali sbagliavano a scritturarci, come quella sera all’Arlecchino dove il pubblico ci contestò: pensavano facessimo liscio e invece attaccammo con un paio di pezzi rock... Siamo dovuti scappare come dei ladri, volevano linciarci».

Ladri di stelle e di note, spesso acchiappate al volo. «Quarant’anni prima che si chiamassero così i tre tenorini, Il Volo era stata la nostra band di rockprogressive messa in piedi da Alberto Radius, Gabriele Lorenzi, Vince Tempera e Gianni Dall’Aglio (ex Ribelli), con Bob Callero “esterno” arrivato da Genova». Pubblicammo due dischi e poi ci siamo sciolti». Dissolti nello spazio di una canzone, come Molecole, brano che da bravo e giovane sarto della musica aveva cucito addosso al più originale e ingiustamente dimenticato dei nostri cantautori, Bruno Lauzi. Una delle infinite collaborazioni estemporanee di quegli anni formidabili in cui bastava un Mario (Capanna) sulle barricate sessantottine mentre il Mario Lavezzi «sul palco c’è salito anche gratis per quelli del “Re Nudo”, ma senza mai mostrare il pugno chiuso. Il mio credo politico è sempre stato: fare bella musica, emozionare, divertire il pubblico e divertirmi».

Per divertimento della Numero 1, la casa discografica di Mogol e Battisti, precedentemente era nato il gruppo dei Flora Fauna e Cemento. «Registrammo Superstar dall’omonima musica di “Jesus Christ Superstar” e due canzoni Un Papavero e Mondo Blu, scritte per noi da Mogol e Lucio Battisti. Lucio? Uno musicalmente più avanti di tutti, con lui ci divertivamo ad andare a caccia, a mangiare nei “trani” qui a Milano e poi mi chiamava a casa sua per interminabili partite a pingpong. L’altro nostro genio assoluto è stato Lucio, Dalla. Quando scelse Vita come hit dell’album Dalla-Morandi, mi sono sentito un miracolato. Pochi dei nostri cantautori possiedono il coraggio e l’altruismo di scegliere le canzoni scritte da altri... Uno di questi è Eros Ramazzotti che nel suo ultimo album Vita ce n’è ha voluto inserire la mia Avanti così. Loredana Bertè dopo averla ascoltata la voleva portare a Sanremo...». Ecco, La luna bussò alla porta dei ricordi di casa Lavezzi. «La Bertè è stata una palestra, anche di vita... Un amore travolgente e uno scambio vulcanico di idee che ha prodotto sei album». Un rapporto da autore Dedicato e mai finito In alto mare, nonostante gli scossoni esistenziali che il destino ha riservato a Loredana, la regina del rock italiano. «Un artista a tutto tondo, una rara la Bertè, come Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia e Alexia, interpreti che curano di più la parte emozionale rispetto a quella tecnica e vocale, che a volte diventa un limite per la maggior parte delle nostre cantanti, anche quelle più brave, come Anna Oxa ( Io no e Non scendo alcuni dei successi lavezziani scritti per lei) o Mina che, anche da “assente”, rimane comunque una presenza gigantesca e un punto di riferimento per le nuove generazioni».

Le ultime leve nate e cresciute nei talent televisivi e che hanno, ancora, come massimo obiettivo arrivare sul palco di Sanremo. «Il Festival, nonostante la direzione artistica di Claudio Baglioni, rimane un grande show televisivo. Con Carlo Conti al comando di Sanremo sottoscrivemmo una petizione firmata da 100 autori in cui chiedevamo che il Festival della canzone italiana fosse rappresentato - in ogni suo genere - dalle vere eccellenze della nostra musica. Quindi, stabilimmo, che servirebbe mettere in atto una selezione di qualità come viene fatta per il Festival del cinema di Venezia. È triste ammetterlo, ma non siamo stati ascoltati. E ciò che mi fa ancora più male in qualità di responsabile della Commissione Musica della Siae è che oggi i giovani autori sono tagliati fuori...».

Saggezza del decano, con oltre 500 perle d’autore depositate alla Siae, molte delle quali in autunno verranno raccolte in un cofanetto celebrativo per il 50°. «Conterrà 3 cd e le canzoni verranno selezionate in ordine cronologico, dal ’69 a oggi. Ci saranno i brani che ho cantato, quelli firmati per altri o che ho prodotto, ma tutti nella loro versione originale». Un’antologia storica in cui l’unico suo rimpianto è non poter inserire La prima cosa bella «avevo fatto l’armonizzazione del brano di Nicola Di Bari ma ero giovane e ingenuo e non la firmai». Ma Lavezzi si consola con un inedito davvero speciale da inserire, ritrovato nel suo prezioso e ancora affollato cassetto. «Si intitola Le mie donne sono amore ed è firmata da me e da quel grande “Poeta” che è stato Franco Califano. Un giorno ci incontriamo in una trasmissione di Chiambretti e il Califfo mi fa: “A’ Mario, ma com’è che io e te non abbiamo mai scritto una canzone assieme?”. Così l’abbiamo fatta. Ora c’è, e la dedico di cuore a Franco, e a tutti quelli che mi hanno seguito in queste cinquanta primavere di musica che mi gira intorno».

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