La poesia fotografica di Giacomelli
Due mostre celebrano a Milano e a Roma la produzione artistica a cent’anni dalla nascita di quello che è stato un vero “fotopoeta”

Cento anni fa, l’1 agosto 1925, a Senigallia nasceva uno dei più grandi maestri della fotografia, Mario Giacomelli. Un personaggio che nella mia memoria vive da sempre come dentro a una cartolina spedita dal mare Adriatico, leggermente sbiadita dalla salsedine. Saluti da Senigallia, primi anni ’80, vicino alla Rotonda sul mare cantata da Fred Bongusto (anche se quella che ispirò il brano si trova sul Lago Trasimeno) a me e alla ragazzaglia della spiaggia di velluto ci apparve un distinto signore dalla lunga chioma candida e qualcuno ci disse che quello era un artista, il fotografo Mario Giacomelli. «Sì dai, quello delle foto dei pretini del seminario qui vicino», aggiunse il più aggiornato degli adulti locali intento a giocare a rovescino allo chalet. L’avventore indigeno conosceva persino la madre di Giacomelli, la signora Libera, lavandaia dell’ospizio, rimasta vedova troppo presto con tre figli da crescere. Mario era il primogenito e a 13 anni è già a lavoro, apprendista alla tipografia Giunchedi. Dopo la guerra quello sarà il suo mestiere.
Grazie al lascito di un’anziana dell’ospizio che aveva a cuore sua mamma, riesce ad aprire una bottega nel cuore storico di Senigallia, la Tipografia Marchigiana. Quello, al civico 5 di Via Mastai, diventerà il luogo dell’anima dell’artista della fotografia, la sua wunderkammer in cui il mondo che passava di lì poteva osservare gli ultimi scatti umani e creativi di Giacomelli. Quello studio è stato ricreato in scala naturale all’interno di Palazzo Reale dove fino al 7 settembre verrà celebrato con la mostra Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta (splendido il catalogo di Silvana Editoriale). Al centenario della nascita che ha dato il via a una doppia retrospettiva, quella milanese e quella romana (Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista aperta fino al 3 agosto al Palazzo delle Esposizioni), si può unire anche il 70° dell’apparizione della sua stella nel firmamento dei grandi della fotografia.
Il talentuoso esponente del gruppo “Misa”, nel 1955 trionfò al Concorso Nazionale di Castelfranco Veneto e il “fotografo delle architetture” Paolo Monti lo incoronava «l’uomo nuovo della Fotografia». Dopo la serie dei Ritratti e l’Ospizio, dove era di casa, la sua consacrazione internazionale avviene con le “indagini” sui luoghi della spiritualità come Lourdes (1957) e poi la vicina Loreto (1959). Nello stesso anno, nel ’59, porta a termine il mitico reportage tra la gente di Scanno (lo aveva iniziato nel 1957). Grazie alla sua opera il borgo abruzzese è assurto a “paese dei fotografi” (dopo di lui sono passati Henri Cartier-Bresson, Hilde, Lotz, Bauer…) e il ragazzino iconico, Scanno Boy ha trovato la sua seconda casa negli Usa: la mitica foto è custodita al Moma di New York. Giacomelli molto prima di Josef Kouldeka si era spinto nei campi degli Zingari. La serie I pretini (ispirata a dei versi di padre Davide Maria Turoldo) è del 1961 e si tratta del primo cenno di “fotopoesia”, lieve come la neve in cui giocano i seminaristi di Senigallia.
E quando parliamo di “fotopoesia” quello che la mostra di Palazzo Reale ha messo pienamente a fuoco è proprio la connessione dell’opera di Giacomelli che è stato poeta per immagini, spesso condivise con i componimenti dei poeti laureati. Un percorso iniziato negli anni ’70 con il progetto destinato alla televisione in collaborazione con Luigi Crocenzi che curò la sceneggiatura per la realizzazione di una serie fotografica basata sull’interpretazione del racconto di Caroline Branson tratto dall’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Ma con Crocenzi nacquero delle incomprensioni che stavano per far naufragare il progetto iniziale che Giacomelli portò comunque a termine, nel 1973, stravolgendolo completamente, a cominciare dalla trovata stilistica delle “sovrimpressioni” che caratterizzeranno la sua futura produzione.
Dopo l’incontro metafisico e metapoetico con Spoon River gli anni ’80 saranno quelli in cui la sua macchina si stacca da terra e comincia a diventare eterea. Rinuncia alla dimensione tangibile di spazio e tempo e la sostituisce, o meglio la trova, solo in quella zona remota e invisibile in cui il sentimento, l’emotività sfociano in un’unica fonte espressiva: la poesia. Giacomelli si aggrappa ai sogni e alle parole che si fanno leggere tra lui e la sua camera oscura, dove non rinuncerà mai, neppure per un singolo scatto, al dogmatico uso del bianco e nero. La poesia entra nelle sue foto evocando quegli autori che ne hanno segnato il cammino e lo fa con la consapevolezza che comunque «le cose grandi non si riescono mai a dire in parole». Una lezione che deve avere appreso dal suo “Virgilio”, Giuseppe Cavalli, l’intellettuale di Senigallia che negli anni ’50 lo introduce alla poesia del genio di Recanati, al quale nel 1954 dedica il paesaggio Le colline di Leopardi. Trent’anni dopo quella serie sente la necessità di tradurre i versi di Leopardi in immagini e questo si svilupperà nell’indagine A Silvia e L’infinito. Un lavoro in cui «Giacomelli procede per pure scansioni spaziali e temporali, per flussi e ritmi totalmente interni, per metafore e metonimie, per ellissi le più ardue e non sempre decifrabili», scrive il critico Giuseppe Turroni. Il “fotopittore” vicino agli stilemi del suo amico Alberto Burri cambia registro e si avvicina agli incontri impossibili con gli amati poeti, sfiorati in un rapporto da lessico e nuvole. Un percorso al quale giunge grazie all’amico poeta Francesco Permunian, l’unico vivente (classe 1951) presente nella mostra di Milano: le sue poesie sono riportate nei pannelli di Palazzo Reale.
E furono proprio quei due componimenti di Permunian, Ho la testa piena mamma e Luna vedova per strade di mare a indurre Giacomelli a trasporre in immagini i testi poetici. Un lavoro febbrile, che sigaretta in bocca, lo portava a raccogliere e poi selezionare tra centinaia di scatti. I suoi “fraseggi” seguono la direzione tracciata da quei poeti letti e ascoltati nelle letture alla radio, rimanendo affascinato dal potere della parola, alla quale doveva dare un senso compiuto con le sue immagini stando però molto attento nel rispettarne i suoni e i colori che questi versi emanavano. Un nuovo spettacolo seriale, aperto idealmente dal crepuscolarismo di Sergio Corazzini e dell’amata poesia Bando: «Avanti! Si accendano i lumi nelle sale della mia reggia! Signori! Ha principio la vendita delle mie idee».
I gruppi di quattro fotografie vengono disposte nello spazio a formare una croce che è simbolo di rinascita, l’incontro tra la vita e la morte che rimanda alla siepe di Leopardi. Mai tradire il senso. Così in Felicità raggiunta, si cammina di Eugenio Montale, costruisce una serie che intende restare fedele ai tre motivi fondanti di quella poesia: «Paesaggio, amore ed evasione». E’ un omaggio alla madre appena persa per sempre quello di Giacomelli che ritrae l’anziana signora Libera negli ultimi giorni, legandone il ricordo alla Ninna Nanna, la poesia Lullaby della scrittrice americana Lèonie Adams. Il vuoto lasciato dalla figura materna andava riempito con i luoghi della sua terra madre: le spiagge di Senigallia, i casali marchigiani specie «quelli fatiscenti o le pareti stratificate di materiali effimeri della sua camera oscura». Per descrivere tutto questo, il fotopoeta si serve di Vincenzo Cardarelli e i versi di Passato. Ed è durante questo lavoro che Giacomelli spinge al massimo la sua macchina introspettiva, arrivando a scrivere sulla parete (nell’anno della caduta del Muro di Berlino, 1989) della sua camera oscura un proclama che è un appello esistenziale: «Non risposte ma creare per nuove domande».
Quella sua creatività, arrivato all’età della saggezza, aveva però l’urgenza di essere scrutata. «Le mie fotografie sono creature che aspettano degli occhi giusti», poetava a modo suo il maestro di Senigallia, il quale anelò fino alla fine (è morto nel 2000) a una vita e a un’arte sempre condivisa con gli altri. Lo scatto finale di Giacomelli: «La vita è fatta di respiri e se nessuno le guarda le mie immagini non respirano più».
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