giovedì 13 ottobre 2022
Rifiutava ogni ideologia ma riteneva che non si potesse scrivere senza occuparsi del bene comune. Una raccolta di saggi fra 1936 e 1946
George Orwell

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Arriva ora sugli scaffali per i tipi di Elliot e nella traduzione di Daniela Alderuccio la raccolta di saggi di George Orwell, Buoni libri cattivi libri (pagine 140, euro 16), che prende il titolo da quello apparso su 'Tribune' il 2 novembre 1945. Si tratta di sette articoli che furono pubblicati nelle sedi più diverse tra il 1936 e il 1946, un decennio cruciale e difficilissimo per la storia europea, che conobbe l’affermazione feroce dei totalitarismi. Il più lungo e articolato - occupa da solo sessanta pagine - è il famosissimo Nel ventre della balena (1940). Si tratta di testi in cui emergono assai chiaramente certi tratti distintivi della personalità dello scrittore: la disposizione autobiografica; il tratto soggettivo e divagante; la riluttanza a ogni visione ideologica e sistematica. In Perché scrivoafferma: «Sin dalla più tenera età, forse dai cinque o sei anni, sapevo che da grande avrei fatto lo scrittore». E più avanti: «Avevo l’abitudine, tipica del figlio che si sente solo, di inventare storie e conversare con persone immaginarie, e penso che sin dall’inizio le mie ambizioni letterarie fossero mescolate alla sensazione di sentirmi isolato e non apprezzato». Infine: «Ogni riga della mia produzione seria a partire dal 1936 è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico». La vocazione alla scrittura, insomma, gli si manifestò presto come una necessità insopprimibile: a nulla servì, tra i diciassette e i ventiquattro anni, provare a fare altro e disinteressarsene completamente. Una vocazione che si coniugò subito con un sentimento di solitudine e disappartenenza, nutrito per altro da una prepotente immaginazione. Col risultato di approdare su una sponda scomoda e poco frequentata rispetto a quella in cui si combattevano, non senza inaspettate complicità e alleanze, fascisti e comunisti: dalla stessa parte, del resto, dei consentanei Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Cosa che non gli impedì, come ribadisce qui, di coltivare una scrittura fortemente impegnata, seppure non organica ad alcun partito: «Mi pare assurdo, in un periodo come il nostro, pensare che si possa evitare di scrivere di questi argomenti». Orwell ne era convinto: tutte le volte che non s’era prefisso in un suo saggio uno scopo politico s’era poi ritrovato a comporre pagine senza vita. Il dato più interessante di questo libro sta in certi passaggi relativi all’attualità culturale e al mestiere della scrittura, là dove lo scrittore si abbandona a un’assoluta libertà di giudizio, concentrandosi spesso su dettagli che possono mettere in giuoco una riflessione di tipo etico, mai moralistica però. Sta parlando di Parigi: «In alcuni quartieri della città, i cosiddetti artisti, a dire il vero, devono aver superato il numero della popolazione attiva: infatti, si è stimato che sul finire degli anni Venti a Parigi ci fosse un numero pari a 30.000 pittori, in gran parte impostori». Quella dell’impostura nell’arte dovrebbe essere faccenda molto seria: mentre invece è, dal punto di vista critico, assai sottovalutata. Già, la critica: che per Orwell ha sempre a che fare con l’assunzione di responsabilità personali. Si leggano a questo proposito le molte pagine dedicate a Tropico del Cancro di Henry Miller, ma anche le Confessioni di un recensore di libri. Non mancano, poi, certe fulminanti notazioni satiriche, che non necessitano di spiegazioni: «Quando si dice che uno scrittore è di moda in pratica significa sempre che è ammirato da chi è sotto i trenta». E che dire delle pagine dedicate agli anni in cui aveva esercitato la professione di libraio? Ecco: «Quando lavoravo in un negozio di libri usati (…) la cosa che soprattutto mi colpiva era la rarità dei veri bibliofili». Senza citare quelle intitolate Libri. Contro sigarette, ove, con esiti talvolta esilaranti, si confuta l’opinione, tenuta in gran conto dall’«individuo medio», che «comprare, o addirittura leggere, libri sia un passatempo costoso».

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