mercoledì 22 maggio 2013
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C'è una voce del «made in Italy» che non entra nella bilancia commerciale e non finisce nel Pil. Eppure conquista i continenti fino a penetrare non tanto nei mercati, quanto nelle culture. È la nostra lingua, l’italiano da esportazione che continua a entrare nei dizionari di mezzo mondo e soprattutto nel lessico quotidiano o nella pagina scritta.Provare per credere. Arrivi in un teatro d’opera a New York, Mosca o Tokyo e il direttore d’orchestra – qualsiasi sia la sua nazionalità – può chiedere ai musicisti di eseguire un adagio, provare la barcarola o ripetere il ballabile.Sfogli i quotidiani internazionali che raccontano l’inizio del pontificato di papa Francesco ed ecco che tornano Conclave, mozzetta o monsignore. Figurarsi in un bar o in un ristorante all’altro capo del pianeta: il menù abbonda di cappuccino, espresso, tortellini, fettuccine o grappa. Certo, gli spaghetti possono andare a braccetto anche con la mafia (vocabolo finito nel lessico mondiale insieme con fascismo). Va meglio se siamo a un simposio di fisici dove si parla di neutrino (nome coniato da Enrico Fermi) o fra i militari dei contingenti internazionali che si rifanno all’italiano quando devono indicare un arsenale. E che dire degli storici dell’arte inglesi che descrivono la predella. Oppure dei ragazzini statunitensi alle prese con una festa di carneval(e).«La nostra lingua continua a circolare all’estero più di quanto si pensi», spiega Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca. Lo dimostra il volume «L’italiano per il mondo» edito dalla Crusca con la Febaf, la Federazione delle banche, delle assicurazioni e della finanza. Dall’economia al cinema, dalle tradizioni alle arti, l’idioma di Dante ha contagiato (e, grazie al cielo, contagia ancora) vicini e lontani. «Non credo che sia necessario rifarsi soltanto al Medioevo, in particolare per la terminologia bancaria, o al Rinascimento, per quanto riguarda il lessico architettonico, o ancora al Seicento e all’Ottocento sul fronte della musica per raccontare la fortuna dell’italiano», afferma la presidente. Il riferimento è a parole come banca o cambiale oppure loggia o balcone (seppur riadattato) o ancora tenore o notturno. «Se in questi anni ci scandalizziamo per l’abuso di anglismi, nei secoli scorsi si assisteva in Francia alla preoccupazione per gli eccessivi italianismi», riferisce la curatrice del volume, Giada Mattarucco, ricercatrice di linguistica italiana all’Università per stranieri di Siena.Oggi quei timori sono ben lontani. Ma in Grecia accade che si ricorra a termini in pseudoitaliano per vendere meglio una bevanda: è il freddoccino, prodotto tedesco che somiglia a un cappuccino gelato. «I vocaboli che diffondiamo sono legati a uno stile di vita che è figlio del nostro straordinario patrimonio culturale e che piace a ogni latitudine – dichiara Maraschio –. Pensiamo, ad esempio, al cinema che in decine di Paesi ha fatto conoscere la locuzione dolce vita».Certo, il canale linguistico che negli ultimi decenni ha favorito l’export dell’italiano è la gastronomia. «Ciò prova – sottolinea Mattarucco – che non basta avere una lingua prestigiosa, ma occorre che abbia risonanza. In pratica serve che contagi le masse. E la nostra cucina è uno degli ambiti più popolari e alla portata di tutti». Poi la ricercatrice racconta un aneddoto. «Un americano, arrivando in Italia, si è stupito che anche qui si usasse la parola pizza tanto era convinto che si trattasse di un vocabolo anglosassone. È un buon segno: significa che l’italiano viene sentito parte della propria lingua».Lo stesso meccanismo di assimilazione vale per la musica. «Il melodramma che oggi consideriamo di nicchia ha goduto di ottima popolarità – chiarisce la curatrice –. E la sua eco è ancora forte all’estero anche fra giovani». Ragazzi che nell’Est Europa chiedono un gelato al cioccolato grazie a canzoni (in questo caso di Pupo) che le radio replicano a ogni piè sospinto.E la moda che nel Belpaese abbiamo sostituito con fashion? «Se i francesi chiamano costume un completo da uomo, è per un lascito dell’italiano – spiega Mattarucco –. E se una parola come ballerina è associata anche a un tipo di scarpa, lo dobbiamo sempre alla nostra lingua». Oggi esportiamo in particolare nomi propri o cognomi: Valentino, Armani, Gucci, Ferragamo. «Il romanzo 18Q4 del nipponico Murakami Haruki che è stato un successo editoriale è ambientato in Giappone, ma i personaggi vestono italiano». Ed è significativo che il termine della moda giapponese shiroganeze, tratto dal toponimo Shirogane, quartiere raffinato di Tokyo, sia stato forgiato sul modello di milanese, da Milano capitale della moda.A conti fatti, però, se lo stato di servizio del nostro idioma gode ancora di buona salute, lo si deve all’apporto della Chiesa che, secondo Luca Serianni, l’ha adottata come «lingua veicolare di fatto (anche se non di diritto)». «L’italiano viaggia anche in talare diffondendo nelle varie lingue italianismi relativi all’abbigliamento ecclesiastico, ai sacramenti, alle istituzioni, alle pratiche», scrive nel saggio introduttivo Vittorio Coletti, ordinario di storia della lingua italiana a Genova. «Spesso si tratta di vocaboli antichi che comunque restano vivi nelle lingue del mondo», aggiunge Maraschio. Del resto l’italiano non solo è la lingua di lavoro della Santa Sede, ma anche le comunicazioni fra presuli di madrelingua diversa avvengono con il nostro lessico. E poi è la lingua più usata nelle università pontificie e nei collegi romani  dove la maggior parte degli studenti viene dalle più disparate parti del globo. «Inoltre – afferma la presidente della Crusca – è stata molto apprezzata la scelta di papa Francesco di adottarla immediatamente anche al di fuori di una prassi consolidata».Ed ecco un ulteriore tratto. «Dietro l’impostazione linguista del Pontefice – conclude Mattarucco – c’è probabilmente il fatto che i suoi parenti erano emigrati italiani in Argentina. Fra chi ha divulgato l’italiano ci sono i lavoratori che hanno lasciato il nostro Paese. Qualcuno ha detto che hanno trasmesso una lingua "tutta fatica e lavoro". Di sicuro nei continenti hanno trasformato l’italiano da lingua di élite a lingua delle persone comuni».
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