giovedì 3 luglio 2025
Una nuova pubblicazione sul parlamentare socialista ucciso dai fascisti nel 1924 fa emergere la meticolosità e la preparazione del politico. Era conoscitore della macchina dello Stato e antibellicista
Giacomo Matteotti

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Il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti (2024) ne ha celebrato la figura soprattutto in relazione alla strenua lotta contro il fascismo. Ma il parlamentare socialista polesano è attuale e vicino alla sensibilità odierna anche per altre ragioni, meno note ma non meno significative. Fu un intransigente antibellicista, opponendosi con tutte le forze all’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, fino a meritarsi il confino in Sicilia per tutta la durata del conflitto. E fu un deciso antinazionalista: previde funeste conseguenze per l’Europa dalla pace vendicativa e punitiva che i vincitori imposero alla Germania e sperò «ardentemente», anche se inutilmente, nella «formazione degli Stati Uniti d’Europa», in luogo della «frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali», come purtroppo accadde. Ugualmente lucido fu il suo rifiuto della rivoluzione russa («un nuovo zarismo») e del comunismo che si voleva esportare in Europa: fascismo e comunismo erano le due facce della medesima minaccia rivoluzionaria e antidemocratica che gravava sul continente.
Tuttavia è nell’attività parlamentare che Matteotti esplicò le sue maggiori energie e diede il meglio di sé. Attività racchiusa in un breve arco temporale: cinque anni scarsi, da novembre 1919, quando entrò per la prima volta a Montecitorio, fino al 10 giugno 2014, quando fu ucciso. Di quel periodo, che lo consegna alla storia, conoscevamo la raccolta completa dei discorsi tenuti in Aula, promossa nel 1970 dall’allora presidente della Camera Sandro Pertini (ora disponibile in versione digitalizzata nel sito della Casa Museo Giacomo Matteotti di Fratta Polesine). Ma la sua frenetica partecipazione ai lavori della Camera ha lasciato molte altre tracce documentarie, ora rese disponibili in un imponente volume curato da Paolo Evangelisti e Fernando Venturini (Giacomo Matteotti nelle carte dell’Archivio storico della Camera dei deputati, Archivio storico della Camera dei deputati, 2025, pagine 781, euro 15,00), che ci fornisce il lavoro per così dire “di cucina” – in particolare i verbali degli Uffici, che nel 1920 divennero le Commissioni permanenti - preparatorio a quello che poi giungeva in Aula.
Che cosa si ricava di nuovo da quest’opera e dall’ampia, puntuale introduzione dei due curatori? Trova conferma innanzitutto la straordinaria meticolosità con cui Matteotti, chino su una scrivania della biblioteca della Camera, fra pile di libri, preparava e documentava i suoi interventi. Per essere sicuro di incontrarlo dovevi andare in biblioteca, ha ricordato Gaetano Salvemini. Addirittura impressionante la ricchezza di riferimenti statistici e comparativi della sua “Relazione sullo stato generale dell’entrata” (agosto 1922), che riscosse il plauso ammirato dei maggiori economisti, da Achille Loria a Luigi Einaudi. Scorrendo queste pagine si ricava poi un’altra conclusione, forse la più importante. La guerra aveva enormemente accresciuto le funzioni e le attribuzioni dello Stato, caricando il personale politico di responsabilità nuove, che richiedevano competenze e inedite professionalità, come teorizzò Max Weber nella celebre conferenza che tenne a Monaco nel gennaio del 1919 intitolata “Politica come professione”. Matteotti arrivò in Parlamento perfettamente consapevole del cambiamento di passo che si chiedeva all’istituto della rappresentanza popolare, delle nuove responsabilità che gravavano su chi si dedicava alla cosa pubblica. «La Camera come è oggi non è più adatta a compiere la sua funzione – scrisse sulla rivista “Critica sociale” -. Agli enti pubblici e allo Stato oggi arriva una più enorme quantità di funzioni e di attribuzioni economiche, culturali, morali, le quali domandano di essere regolate, coordinate, distribuite, così come gli interessi nazionali divengono ogni giorno più internazionali o bisognosi di essere discussi e accordati internazionalmente». Purtroppo, concludeva, «l’antico ordinamento e i vecchi organi dello Stato, altrimenti abituati, non sono capaci di comprenderle e regolarle». Detto in altre parole: i rappresentanti del popolo non potevano più limitarsi ad essere i portavoce delle clientele locali, dovevano diventare attori di una non più eludibile riforma dello Stato.
Egli cercò di essere all’altezza di tale ruolo soprattutto sul terreno che gli era più congeniale: l’ambito finanziario, quello della pubblica amministrazione, nel quale portava la solida preparazione legale acquisita all’Università di Bologna, che ne aveva fatto un giurista da tutti apprezzato, e l’esperienza acquisita nell’anteguerra gestendo gli enti locali nella sua provincia di Rovigo. Il rigore della spesa, la credibilità della finanza pubblica, l’equa ripartizione del carico fiscale (su cui segnalo lo studio breve e chiaro di Francesco Tundo, La riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna University Press, 2024), la necessità di introdurre chiarezza e comprensibilità nella legislazione intensificando sinergie e collegamenti con l’Europa, furono il terreno sul quale egli si impose all’attenzione generale, non solo in Italia. L’eco enorme che ebbe il suo assassinio nel mondo intero fu sicuramente il contraccolpo emotivo ad un delitto selvaggio, ma fu anche la reazione indignata suscitata dalla soppressione di una delle figure più rappresentative della politica italiana postbellica. Questo volume di Evangelisti e Venturini rafforza insomma l’impressione che l’uccisione di Matteotti abbia nuociuto due volte a questo nostro Paese: eliminò il nemico più agguerrito del fascismo, ma al contempo privò l’Italia di una figura che per competenza, dirittura morale e lucidità politica, avrebbe potuto dare moltissimo, allora e soprattutto dopo.

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