giovedì 11 marzo 2021
Il geografo Varotto esamina l'area interstiziale tra pianura e alta quota. Schiacciata da modelli a lei poco adatti, può configurarsi come territorio di avanguardia di nuove prospettive di sviluppo
L'Adige tra Besenello e Calliano

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Le montagne non sono piramidi. Non sono astrazioni geometriche, anche se su di esse ha lavorato con forza l’approccio numerico che, dall’Illuminismo in poi, ha voluto mapparle millimetricamente, stabilire primati, stilare classifiche. Tutti questi elementi avrebbero costituito i prodromi dell’appropriazione dello spazio montano, alpino prima di tutto, da parte dei nascenti Stati-nazione, che avrebbero imposto ai rilievi linee nette di confine del tutto estranee alla loro storia e al loro essere aree di passaggio. Linee nette, là dove concretamente non ci sono altro che sfumature come quella, la più macroscopica, che proprio attraverso le Alpi porta dall’area culturale mediterranea a quella mitteleuropea, con le sue ricadute linguistiche, religiose, artistiche. Linee nette che sono diventate frontiere e quindi, con la Grande Guerra, fronti: o di qua o di là, senza eccezioni. Questa è l’astrazione geometrica che si sovrappone al paesaggio plasmato dall’uomo nei secoli, e lo sostituisce. E all’astrazione geometrica si rifà ancora oggi qualsiasi discorso pubblico relativo alla montagna, che prende invariabilmente le mosse dalle semplificazioni più facilmente comprensibili: la quota, l’altitudine, il dislivello. L’attenzione finisce così, quasi inevitabilmente, per concentrarsi sui punti estremi, l’alta montagna, oggetto di un percorso storico di costruzione dell’immaginario che ha portato a definirne i caratteri in modo chiaro e distinto per gli uomini di pianura, diventati nel frattempo “fruitori” della montagna nelle sue varie declinazioni turistiche definite secondo i modelli e le articolazioni proprie delle città industriali, quindi con precisi standard funzionali al loro sfruttamento anche di massa.

Ma l’alta montagna, trasformata tra Otto e Novecento in una sorta di appendice della città, non è che una porzione del territorio montano, soprattutto in Italia. Tra la vetta e la pianura si articola lo sfuggente, complesso, ricco e povero mondo delle quote intermedie. Per rimanere all’approccio numerico, in sé insufficiente a descrivere la varietà delle situazioni ma utile a inquadrare la questione, i territori compresi tra i 600 e i 1.500 metri in Italia rappresentano un quarto del territorio dell’intera penisola. Eppure per queste aree non esiste nemmeno un nome soddisfacente: anche per questo Mauro Varotto, geografo dell’Università di Padova e del Club alpino italiano, propone “montagne di mezzo”, con l’esplicita scelta di una sorta di indeterminatezza tolkeniana (Montagne di mezzo. Una nuova geografia; Einaudi, pagine 190, euro 21,00). Dentro questa quota ci sta un po’ di tutto, dai dolci paesaggi collinari del centro Italia agli scoscesi versanti prealpini, e restano fuori territori ugualmente aspri ma magari che toccano il mare: si pensi alla Liguria, per fare un esempio. Un insieme insomma, quello numerico, al tempo stesso troppo e troppo poco. Varotto cerca di isolare il territorio che ha bisogno di una riflessione specifica – e di conseguenti politiche specifiche – accompagnando ai fattori più facilmente misurabili quelli più sfuggenti legati al contesto antropico, economico, sociale. A fare della “montagna di mezzo”, prima di tutto, montagna tout-court, è lo specifico rapporto delle persone che vi vivono con l’ambiente attorno a sé, incentrato sul rapporto con le risorse, sul terreno non solo “verticale” ma anche organizzato per versanti e vallate, e sulle reti umane, dove anziché agglomerati urbani si ha un pulviscolo di piccoli centri abitati, ancora ricchi di tradizioni e di comunità ma – ben lungi, come in alta montagna, dall’essere fissati in ieratici paesaggi-cartolina – in piena presenza nella contemporaneità, con i suoi tumulti e le sue evoluzioni.

L’astrattezza e a volte l’inapplicabilità di alcuni dei provvedimenti presi per contrastare la pandemia hanno dimostrato come nel discorso pubblico italiano manchi – è il cuore del ragionamento di Varotto – prima di tutto la consapevolezza dell’esistenza di questa “montagna di mezzo”. La quale a sua volta fatica a pensare se stessa in termini propositivi, capaci di mostrare uno scarto rispetto ai modelli omologanti importati dalla pianura. Per esempio, le tante produzioni alimentari che provengono da questi territori vengono elaborate in strutture industriali del tutto omologhe a quelle della pianura, colonizzando i fondovalle che si presentano così come un susseguirsi di capannoni, palazzine e strade. Eppure, immancabilmente nella loro auto-rappresentazione si rifanno all’immaginario elaborato per l’alta montagna: così, cartoni di latte o vasetti di yogurt prodotti nella “montagna di mezzo” (si pensi alla vasta zona industriale che risale dal Trentino all’Alto Adige, che non arriva a 300 metri di altitudine) sfoggiano in bella vista pascoli alpestri, cime innevate, gorgoglianti torrenti. Ma, al tempo stesso, basta un minuscolo accidente che sarebbe irrilevante in pianura – un ponte interrotto, un piccolo smottamento – per troncare vie di comunicazione essenziali, la cui impraticabilità può stravolgere a lungo la vita quotidiana di migliaia di persone.

Eppure, proprio questi mesi di pandemia hanno visto appuntarsi una nuova attenzione sulle terre – non solo alte – extraurbane, con la delocalizzazione forzata di molte attività, anche attraverso lo strumento del telelavoro. Qualcuno ha intravisto la possibilità di un diverso modello organizzativo, capace di ridefinire stili di vita e rapporto con l’ambiente. «Il dibattito critico sulla crisi dello Stato-nazione – scrive Varotto – suggerisce di leggere questi fenomeni come avanguardie […]. In questo contesto di forte instabilità e dinamismo si fa strada una nuova idea di “territorio”, che per la montagna sembra un déjà-vu: non più il prodotto di un unico potere esercitato su uno spazio omogeneo delimitato da netti confini, ma una “rete” neuronale che sposta il baricentro dalle “linee” alle “relazioni”». Poco più di una suggestione, per ora. Ma che potrebbe essere il punto di partenza per un cambio di paradigma di ampia portata, che farebbe delle “montagne di mezzo” non più territorio di scarto, ma di avanguardia.

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