giovedì 10 novembre 2016
Lo storico dell'arte indaga l'origine del quadro da cavalletto nelle Fiandre nel XV secolo. L'artefice di questa rivoluzione fu Jan van Eyck, il pittore del celebre quadro dei Coniugi Arnolfini
Un particolare del quadro dei Coniugi Arnolfini di Jan van Eych

Un particolare del quadro dei Coniugi Arnolfini di Jan van Eych

COMMENTA E CONDIVIDI

L'invenzione del quadro nell'arte fiamminga. Un saggio di Hans Beltin

Nel suo ultimo libro tradotto ora in italiano (ma scritto in realtà nel 1994), Hans Belting ci ricorda che a Bruges il fabbricante di specchi e il pittore appartenevano alla stessa corporazione. Siamo circa a metà del XV secolo, e il libro di Belting s’intitola Specchio del mondo. L’invenzione del quadro nell’arte fiamminga (Carocci, pagine 232, euro 23,00). Eppure, il tema di cui Belting si occupa in questo saggio erudito ma senza diventare pedante, non è soltanto di pertinenza fiamminga. Subito dopo lo storico si affretta a ricordare che l’Alberti, grande teorico della visione pittorica moderna, sosteneva che la storia della pittura era iniziata da uno specchio, quello di Narciso. Mi sono sempre chiesto quanta verità ci sia in questo mito. Immaginiamo uno dei primi uomini, un individuo capace di elaborare la domanda su ciò che vede riflesso sullo specchio d’acqua: che cosa vedeva effettivamente quell’uomo? Aveva coscienza di vedere se stesso, oppure, come un animale sorpreso dall’ombra più o meno comprensibile di un proprio simile, fu spinto a compiere un balzo indietro per difendersi dallo sconosciuto che gli era apparso all’improvviso? La coscienza di vedersi riflesso nello specchio quando venne acquisita dall’uomo? La pittura rupestre, che pure ci ha dato cose di una poeticità altissima, nasce dopo l’acquisizione di questa coscienza oppure la precede? Nel libro Belting fa reagire i due poli di un modo di vedere che ha qualche analogia con la celebre questione della schisi che Jacques Lacan aveva messo in luce fra l’occhio e lo sguardo, fra la pulsione del desiderio e la limitazione del vedere che trova nella pittura un diaframma. Lo sguardo viene a patti con l’occhio e cerca di controllarne il desiderio. La pittura vela allo sguardo (del pittore e dello spettatore) una varietà di pulsioni che l’occhio, in quanto organo del corpo, vuole appagare.


Il quadro come specchio e lo specchio come quadro: l’elasticità di questo intervallo visivo fra i due poli, che connota i periodi storici e l’investimento simbolico che viene fatto sulle immagini dall’uno all’altro periodo, fa capire quanta coscienza (intenzionalità) poteva esserci nel quadro che si stacca dalla parete un tempo dipinta ad affresco, che si rimpicciolisce rispetto alla pala d’altare, e diventa parte ristretta di una visione dove in realtà esterno e interno si tengono proprio perché nel quadro (finestra dello sguardo) entrano elementi come lo specchio stesso ovvero porte e aperture che introducono nell’ambiente privato, domestico, il mondo. Il quadro come genere autonomo diventa l’interfaccia, la membrana virtuale di comunicazione, fra l’interiorità del soggetto (di colui che è ritratto ma anche di colui che guarda) e l’esteriorità del mondo.


Perché improvvisamente questo tema fa irruzione nella pittura? È questo l’enigma da svelare. Intanto, Belting nelle premesse distingue fra diversi tipi di sguardo. Non è quello del collezionista a interessare, sguardo distaccato e legato all’immanenza dell’oggetto che va a colmare una casella vuota in un “universo” simbolico. Se il quadro appeso alla parete viene presto associato a una finestra, ugualmente viene inteso come specchio, da cui deriva l’intervallo costante tra «la finestra della rappresentazione interna e l’immagine speculare del mondo». Questa particolare oscillazione visiva genera un tipo di opera, il quadro autonomo e dalle misure ridotte rispetto alle grandi tele religiose, che va a occupare un nuovo spazio della coscienza umana e sociale, quello della borghesia nascente che proprio nelle Fiandre, attraverso i grandi mercanti europei, vive la propria epoca regale.

Belting dispone sul tavolo gli elementi della questione, e ci indica l’artefice di questa invenzione: Jan van Eyck, distillandone i valori nel celebre quadro dei Coniugi Arnolfini (conservato alla National Gallery a Londra). Non si tratta di una novità “pura”, i precedenti con cui doveva misurarsi erano il libro illustrato e le opere di oreficeria, tanto che inizialmente il quadro sembra riprenderne i generi: tavole dipinte che si aprono e chiudono come un libro, oppure tondi che richiamano lo schema di spille o pendenti con soggetti analoghi, come nota Belting mettendo a confronto la Grande pietà rotonda di Jean Malouel (oggi al Louvre) e il pendente in oro e smalto del Metropolitan di New York d’identico soggetto.


Si deve scindere la parola borghese dalle facili associazioni ideologiche a rimorchio della vulgata marxista. Il quadro si rivolgeva al borghese oppure «all’uomo in quanto tale», diventando un mezzo di rappresentazione dinastica e in tal senso Van Eyck, «il principale inventore del ritratto borghese, fu anche pittore di corte con il compito di redigere i ritratti dei principi». E pare che ritraendo se stesso, Jan abbia unito i due generi nel celebre Uomo col turbante rosso, che esce dalle rappresentazioni simboliche del passato (dove la somiglianza fra ritratto e personaggio non era di assoluto rigore) dandoci l’impressione che sulla superficie si muova una persona vivente.

Le pagine che Belting dedica al Polittico dell’Agnello mistico di Gand sono puntuali, ma è quando analizza ritratti come quello degli Arnolfini che ci rendiamo conto come la macchina simbolica dei dettagli sia una tavola apparecchiata in uno spazio che gioca il ruolo decisivo perché «è proprio dentro questo spazio che noi percepiamo il soggetto raffigurato, e non sulla superficie sulla quale esso è dipinto». Nel Ritratto del cardinale Albergati, invece, è la descrizione minuziosa dei dettagli somatici che tocca esiti sorprendenti e giustamente Belting sottolinea come «le sfumature di colore dei peli sul mento e della verruca sono descritti con un incredibile fanatismo per il dettaglio». Questa maniacale attenzione al più piccolo elemento in realtà è parte di quella «desacralizzazione del principe» che lascia sulla tela «la mera immagine dell’essere umano». La somiglianza diventa il tema decisivo del ritratto, per cui si parla di ritratto “leale” solo se è davvero fedele (come fa capire l’iscrizione sulla pietra nello straordinario Timoteo eseguito da Van Eyck).

La natura “duplice” dello sguardo che si manifesta in questa pittura (che guarda dentro al soggetto e rende visibile dall’esterno il suo segreto), è un modo di rendere l’esperienza visibile nella modernità. Un tema articolatissimo, dove lo specchio è anche memento mori (la ricchezza delle argomentazioni di Belting non sono qui riassumibili), ma che sembra entrare in crisi molto presto, neppure un secolo dopo, col mondo infernale di Hieronymus Bosch dove il quadro ritorna a essere «specchio della verità morale». Attenzione, però, niente di consolatorio avverte Belting: «Bosch si professa critico realista della miseria del mondo, senza però offrirci la soluzione della fede come via di scampo». E così lo specchio piano che Leonardo definì «maestro de’ pittori» ridiventa convesso e ci mette davanti il volto deforme della realtà che abita dentro di noi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: