lunedì 22 gennaio 2024
Molto forte la presa di posizione di Maresca, arbitro di Udinese-Milan dopo gli attacchi razzisti contro il portiere del MIlan, Maignan. Cosa fare per arginare il triste fenomeno negli stadi
Il portiere del Milan, Maignan

Il portiere del Milan, Maignan - Fotogramma

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Quando accadono episodi di razzismo da ultimo stadio, come quello che a Udine ha colpito il portiere del Milan, Maignan, si rimane storditi dal vocio di legittima e civilissima indignazione, che però poi con l’andare delle ore trascende nel chiacchiericcio social che lascia spazi troppo ampi al commento politico con la relativa strumentalizzazione del fatto. Questo, fino al triplice fischio della pubblica ottusità che viene puntualmente sancito dal classico e vacuo proclama della “tolleranza zero”.

Di tutte le voci ascoltate nelle ultime 48 ore, la più spontanea ed efficace, specie per un discorso di sensibilizzazione autentica, c’è sembrata quella dell’arbitro Maresca. L’uomo nero, di solito il più vituperato da tutti, l’arbitro, ha espresso una solidarietà umana toccante. «Mi sono comportato da fratello maggiore, ho provato sincero dispiacere per Maignan che era chiaramente colpito sul piano emotivo… che disagio ho provato per quei buu beceri».

Colpiscono queste parole del signor Maresca di Napoli, perché se c’è uno tra i 22 protagonisti in campo che dovrebbe interrompere le partite e andarsene ogni maledetta domenica, beh quello è il 23° uomo: l’arbitro. Il direttore di gara oltre a beccarsi da contratto – non scritto – una dose spropositata di insulti reiterati per tutti i 90 minuti, dal pubblico, dai calciatori in campo, dai tecnici e dirigenti dalla panchina fino alla tribuna vip, viene quasi sempre additato come il responsabile principale del risultato finale. E neanche l’era del Var lo esenta dal ruolo ormai ascritto di signore Malaussène del nostro calcio. Perciò, quella solidarietà espressa da Maresca a Maignan, non è soltanto un atteggiamento di vicinanza umana, ma la totale comprensione per uno stato di oppressione condiviso, un “razzismo” che gli arbitri subiscono costantemente senza che nessuno pensi di lasciare il campo in segno di protesta. È un razzismo istituzionale quello contro l’arbitro: è l’oltraggiosa violenza verbale e talora anche fisica (andate a vedere le gare dei dilettanti e del calcio giovanile quello che devono subire questi poveri cristi con il fischietto che mettono a repentaglio la propria vita per un rimborso spese-trasferta che non basta neanche per la benzina) è frutto di un popolo, quello degli stadi, che odia l’istituzione. Il passaggio dall’odio istituzionale a quello verso il calciatore di colore è un attimo. Un tempo eravamo convinti che il bersaglio mobile dell’orda balorda dei beceri buu fosse il calciatore di colore forte e vincente. È stato così per i Thuram, i Ronaldo, i Ronaldinho (l’elenco è sterminato). Per anni ha impazzato il “caso Balotelli” : a Mario veniva rimproverato che “non può esistere un nero italiano”. Poi, grazie alla lezione di un sociologo, il compianto e fraterno Mauro Valeri (ideatore dell’Osservatorio sul Razzismo negli stadi, che fine ha fatto?) capimmo che il carisma e la potenza atletica ed economica del calciatore di colore era un elemento marginale, perché persino la Curva del più pacifico dei club, il Chievo Verona istigava al “buu di famiglia”. Ovvero, un intero nucleo, papà, mamma e bambino, colti dalla telecamera nell’atto di inveire con cori razzisti all’indirizzo del Balotelli di turno, che poi è diventato il Koulibaly, il Maignan... Ogni volta la solita storia di indignazione collettiva, ma nessuno tra i professionisti ha mai trovato il coraggio di uscire dal campo e di fare interrompere la partita. Maignan c’ha provato, ma poi da fuoriclasse di sportività e per il profondo rispetto che nutre nei confronti dei suoi compagni ha fatto un passo indietro ed è tornato al suo posto, dando le spalle a papà e figlio che hanno continuato a chiamarlo “scimmia”. Ora, mettendo da parte per una volta i finti proclami cerchiamo di essere seri e concreti. Non servono punizioni esemplari, ma vanno adottati dei correttivi immediati ed efficaci. Perciò, in una società in cui il “grande fratello” ci spia ad ogni respiro, non serve poi un genio per rintracciare le immagini dei colpevoli, piccoli e grandi, e sbatterli fuori da uno stadio, anche per sempre.

A meno che queste persone, padri, madri e figli, che si dichiarano tifosi (in questo caso dell’Udinese) non seguano dei corsi di tifo responsabile (vedi Scuola di Seregno) e accettino di fare un servizio socialmente utile nei luoghi dove il “nero” che abiurano vive in sofferenza e al margine della società alla quale chiede di essere incluso e trattato con la stessa dignità di un friulano, di un italiano, di un qualsiasi essere umano. Il calcio ha una grande responsabilità, perché non c’è un luogo pubblico più affollato di uno stadio di pallone. Ma gli stadi oggi hanno bisogno di un pubblico come quello dei teatri. Lo stadio deve essere frequentato da persone appassionate e civili, che applaudono, gioiscono e magari piangono pure davanti allo spettacolo di 22 attori, anzi 23 con l’arbitro, ma senza mai insultare nessuno, portando il dovuto rispetto all’uomo e il padre di famiglia, che viene molto prima del calciatore e dell’arbitro in campo.


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