Khaled Kalifa, nato ad Aleppo nel 1964, è scrittore, poeta e sceneggiatore
Khaled Khalifa fa una certa fatica a separarsi dal passaporto. Gli organizzatori di Libri Come (la manifestazione romana alla quale lo scrittore siriano ha partecipato nei giorni scorsi) glielo hanno chiesto per pochi minuti, il tempo necessario a sbrigare le pratiche burocratiche, ma fino a quando il documento non torna nelle sue mani Khalifa dimostra una contenuta irrequietezza. «Lei non può capire – si scusa mentre il passaporto viene messo finalmente al sicuro –, ma nel mio Paese questa è una faccenda molto seria». Della Siria, e in particolare di Aleppo, Khalifa scrive da sempre. «Ormai mi sono convinto che sia il mio destino – ammette con un sorriso –. Anche il libro al quale sto lavorando in questo momento è ambientato ad Aleppo, nel XIX secolo». Simbolo della guerra che da sette anni infuria in Siria, la città offre il fondale sia a Elogio dell’odio, il romanzo del 2006 al quale è legata la fama internazionale dell’autore, sia a Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città, il libro che nel 2013 ha vinto il premio intitolato alla memoria del Nobel egiziano Naguib Mahfouz e che ora esce, come il precedente, da Bompiani (traduzione di Maria Avino, pagine 286, euro 18,00).
Da dove viene il titolo?
«Dall’insurrezione di Hama, la città che nel 1964 cercò di ribellarsi ai militari che avevano assunto il potere con il colpo di Stato dell’anno precedente – risponde Khalifa, che il 28 marzo presenterà il libro al Teatro Franco Parenti di Milano –. L’esercito aveva preso d’assedio il centro abitato e si preparava a bombardare. Nel corso dei negoziati con i maggiorenti locali, il comandante delle forze governative se ne uscì con questa minaccia: “Quando avrò finito con voi, in città non resterà più neppure un coltello”».
Che cosa significa rievocare oggi quelle parole?
«Significa tornare a confrontarsi con i due sentimenti che, a mio avviso, hanno dominato la società siriana per molto tempo. La paura, anzitutto, che è insopprimibile e onnipresente. Paura della repressione, paura che qualcuno dei tuoi cari sparisca o che tu stesso venga fatto sparire. C’è il timore di un sopruso che può calare dall’alto in qualsiasi istante, ma anche del tradimento consumato da chi ti è più vicino. In questo senso, neppure gli esponenti dell’élite di governo si sentono mai al sicuro, perché sanno di non potersi fidare gli uni degli altri».
E il secondo sentimento qual è?
«La vergogna, che della paura è una diretta conseguenza. Nel 2011, quando è iniziata la rivolta contro Assad, in molti si sono chiesti come fosse stato possibile sopportare così tanto, nel silenzio e nella rassegnazione. Perché non abbiamo fatto sentire la voce? Perché non abbiamo preso l’iniziativa? Sono le domande che ancora oggi assillano i siriani, che purtroppo conoscono bene la risposta: la paura, di nuovo. Ma ne valeva la pena? Era giusto accontentarsi di sopravvivere in quelle condizioni pur di ottenere un minimo di sicurezza personale?»
Sembra di sentir parlare i personaggi del suo romanzo.
«Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città è in primo luogo la storia di una famiglia. Tutto ruota intorno alla morte della madre, una donna che è uscita sconfitta dalle vicende che si sono susseguite in Siria nell’ultimo mezzo secolo. I suoi sogni sono andati in frantumi, ma non saprei dire se fossero anche i sogni dell’intero Paese. In generale, non sono propenso a caricare significati eccessivi le trame dei miei romanzi. Qui, nello specifico, il narratore rivela pochissimo di sé. Ho provato a interpellarlo, ma lui ha preferito non palesarsi e io mi sono adeguato alla sua decisione».
Un altro protagonista, il giovane Rashìd, avverte invece il richiamo del fondamentalismo islamico.
«Sì, anche se in forma passeggera. Si tratta di un fenomeno che, com’è noto, risale agli anni Settanta e Ottanta e che in Siria non ha mai attecchito veramente, se non nei confronti di persone deboli, alla disperata ricerca di una propria identità, com’è appunto Rashìd. Quel che è chiaro, purtroppo, è che la storia cominciata con al-Qaeda e proseguita con varie imitazioni e prosecuzioni, ultima delle quali è il Daesh, appare ancora molto lontana dal potersi considerare conclusa. Inizialmente sostenute dall’Occidente in funzione antisovietica, queste organizzazioni si sono poi rivelate il peggior nemico dell’Occidente stesso. Non di rado, del resto, i progetti messi in campo dai servizi segreti ottengono risultati opposti rispetto a quelli previsti».
Perché la Siria dovrebbe essere immune dal fenomeno?
«Perché, nonostante tutto, non è mai stato un Paese disposto al fanatismo. Ha un’identità composita e plurale, molto difficile da smantellare completamente. Dalla Guerra Fredda in poi, tutti i progetti di conquista o di controllo che si sono avvicendati sul territorio siriano hanno avuto la pretesa di uniformare la nazione. Di renderla monocromatica, se così vogliamo esprimerci. Ma la società siriana è variegata da sempre, si fonda sulle premesse di un multiculturalismo che, nel nostro caso, non è un atteggiamento maturato in epoca moderna, ma un valore ereditato da un passato antichissimo. I curdi, per esempio, vivono nella regione da milioni di anni e sono una delle popolazioni di questo territorio al pari dei siriani e degli assiri. Siamo figli di questa complessità, per noi l’identità è una ricerca continua».
Questo rende più dolorosa l’esperienza dell’emigrazione?
«Dall’indipendenza nel 1946 fino al colpo di Stato nel 1963 l’emigrazione siriana è stata molto ridotta. Certo, c’era chi andava all’estero a studiare, ma poi ritornava, desideroso di offrire il proprio contributo al sistema democratico che si stava formando. In precedenza, nel 1915, era stata la carestia a indurre molti a lasciare il Paese, mentre in seguito la spinta, che dura ancora oggi, è stata data dalla mancanza di libertà. L’emigrazione per noi è una costrizione, non una scelta. Anche in questo, la sorte di Aleppo è la sorte di tutta la Siria. Guardi quello che accade in queste ore ad Afrin, a Ghouta».
Lei però ha scelto di restare, pur avendo la possibilità di trasferirsi all’estero: perché non se n’è andato?
«Voglio aspettare che tornino i miei amici. Non voglio più sentirmi solo».