venerdì 23 dicembre 2022
Nel 1923 Edoardo diventa il 1° presidente della famiglia che da un secolo governa i bianconeri. Una saga da rileggere nel libro di Cucci e Calzaretta con le splendide foto storiche di Salvatore Giglio
“Triade” gloriosa: l’Avvocato Gianni Agnelli, suo fratello Umberto e in mezzo Giampiero Boniperti, foto tratta dallo splendido archivio di Salvatore Giglio

“Triade” gloriosa: l’Avvocato Gianni Agnelli, suo fratello Umberto e in mezzo Giampiero Boniperti, foto tratta dallo splendido archivio di Salvatore Giglio - Salvatore Giglio/GiglioStudios

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L’anno che verrà, sarà quello del centenario del “regno juventino” sotto il casato degli Agnelli. I veri reali d’Italia sì sa, sono innamorati del calcio e dei bianconeri, fin dal 1923. «24 luglio 1923. È la data fatidica. Il giorno in cui il cavaliere Edoardo Agnelli, dottore in legge, diventa presidente della società bianconera subentrando a Gino Olivetti», scrive mastro Italo Cucci assieme a Nicola Calzaretta, nello splendido libro, impreziosito dalle foto originali e dell’archivio di Salvatore Giglio, 1923-2023 Agnelli Juventus. La famiglia del secolo (Reverdito. Pagine 263. 50 euro). Quel Gino Olivetti l’11° presidente della Juventus (fondata nel 1897) al quale successe Edoardo Agnelli - figlio del senatore Giovanni, il padre patron della Fiat - era a sua volta il fondatore di Confindustria, nato da genitori ebrei che per sfuggire alle leggi razziali riparò in Argentina, dove morì nel 1942. Ma questa è un’altra storia. Mentre tornando a Edoardo, il primo rampollo degli Agnelli che prese in mano la Juventus, questi lo fece su imbeccata della classe operaia. Fu infatti il difensore vercellese Antonio Bruna, tesserato per la Juventus Fc e tuta blu alla Fiat (con tanto di permesso per allenarsi con il bianconeri firmato dal senatore Agnelli) a sobillarlo con la lusinga: «Avvocato Edoardo, sarebbe un grande onore averla come presidente». E così, a 31 anni, il vicepresidente della Fiat e delle officine di Villar Perosa, da sempre la seconda casa bianconera, da uomo di sport, appassionato di calcio e motori, oltre che di viaggi, si mise al timone di quella che con il tempo e le gesta gloriose dei suoi campioni sarebbe diventata la Vecchia Signora del calcio italiano.

Edoardo assume la carica con lo spirito del tycoon fordiano, abituato ad ingranare subito la quarta: comprende che il calcio italiano ha bisogno di accelerare come i maestri inglesi, di uscire quindi dal grigio dilettantismo e puntare a una solare dimensione professionistica. Per cominciare, un nuovo stadio, l’impianto di Corso Marsiglia, e poi l’ingaggio di uno stratega di panchina proveniente dall’allora nobile scuola ungherese, Jenò Karoli. Il mister magiaro portò in pacco dono a Torino il fuoriclasse Ferenc Hirzer, il capitano dell’Ungheria. Tutti gli uomini del Presidente operativi in Sudamerica gli recapiteranno poi dei pezzi pregiati per la sua nuova officina bianconera: gli oriundi Orsi, Monti, Cesarini che andarono ad affiancare i talenti a km 0, Combi, Rosetta, Calligaris e Munerati. Uno squadrone capace di conquistare cinque scudetti di fila nel lustro d’oro 1930-’35 (solo la Juve del terzo millennio, guarda caso sotto Andrea Agnelli, ha fatto meglio, con 9 titoli consecutivi su 36 complessivi anche se gli juventini ne rivendicano 38). Ed è qui che origina il leggendario “stile Juventus” della Fidanzata d’Italia, descritto con la giusta enfasi dalle edizioni del Guerin Sportivo. «Sempre uguali i dirigenti, sempre fedeli i soci, sempre uniti i giocatori, mai troppo lodati, mai troppo rimproverati, in quest'ambiente vi è una cosa: l'educazione non solo sportiva, ma anche sociale». Era di luglio il giorno in cui quello stile venne introdotto da Edoardo Agnelli e sempre a luglio, del ‘35, il Presidente volò nel mondo dei più: morto a bordo di un idrovolante ammarato all’idroscalo di Genova, insieme al pilota Ferrarin. Aveva 43 anni l’Avvocato senior, l’età più o meno in cui l’Avvocato jr, Giovanni (secondo dei sette figli che Edoardo ebbe con la moglie, l’americana Virginia Bourbon del Monte, principessa di San Faustino), chiuse il tempo delle mele e dell’otium da dolce vita per dedicarsi all’azienda motoristica della dinastia e anche alla Juventus, che di fatto aveva ereditato da orfano adolescente.

Il nonno di cui portava il nome e che lo aveva eletto a nipote prediletto, quando aveva 15 anni gli disse: «La Juventus nel nome di tuo padre, ti vorrebbe nel suo consiglio direttivo, ti piacerebbe?». Il Senatore gli stava regalando il giocattolo domestico e l’Avvocato assunse la presidenza per il settennale 1947-’54, conquistando due scudetti. Alla festa del suo primo tricolore, stagione 1949-’50, prese parte anche il “geometra” Pietro Rava che lo scrivente ebbe l’onore di incontrare nel suo appartamento torinese, che, ironia della sorte per una gloria juventina, si affacciava proprio di fronte al tempio granata: lo Stadio Filadelfia del Grande Torino caduto a Superga il 4 maggio 1949. Rava era uno dei ragazzi del ‘38, campione del mondo con la Nazionale del tenente degli Alpini Vittorio Pozzo. Il suo nome per sempre sarebbe rimasto nella storia azzurra come il terzo della triade record: “Olivieri-Foni-Rava”: 15 match internazionali insieme da imbattuti: 12 vittorie, e 3 pareggi. «Ma io e Foni siamo stati gli unici giocatori della Nazionale a non avere avuto neanche una lira dalla federazione. Quando ho smesso di giocare mi hanno proposto una polizza per avere un fondo pensionistico, ma era una mezza bufala. Adesso prendo 20 euro al mese dall'Inps, nonostante le 30 presenze in Nazionale e i 14 anni da titolare nella Juventus...», disse amaro Rava poco prima di uscire per sempre di scena, è morto 90enne nel fatale 2006 bianconero. E anche la Vecchia Signora, si era inspiegabilmente scordata di Rava, che sedotto e abbandonato confessava: «Ho amato la Juve al punto da sacrificare anche la mia vita privata. Se la domenica si perdeva, al lunedì si stava in casa. Eppure la società quando ho smesso non ha fatto nulla per me, e a dire il vero, in tutti questi anni mi sono stati più vicini i tifosi del Toro piuttosto che i bianconeri». Storture della memoria di cuoio che a volte è debole e corta come il resto della memoria storica.

Eppure la Juventus degli Agnelli, quanto a storia e tradizione non ha eguali da noi. Nel ’55 quando l’Avvocato si smarca dal ruolo di presidente lascia oneri e onori al fratello Umberto che, nell’altro settennale al comando, 1955-’62, può contare su Giampiero Boniperti, capitano di lungo corso e bomber scaltrissimo, capace di farsi pagare dall’Avvocato il bonus-gol in “vacche grasse” (da uomo del contado di Bomporto sapeva selezionare scegliendo solo quelle gravide) per la disperazione del fattore di corte. Boniperti nel periodo di Umberto Agnelli presidente vince 3 dei 5 scudetti conquistati in una carriera da “una maglia una vita”, orchestrando a centrocampo una squadra che aveva il suo terminale stellare nel funambolico antenato di Maradona, l’argentino terribile Omar Sivori e il gigante buono gallese, John Charles. Sivori è stato il primo Pallone d’oro juventino che ha aperto una strada lastricata di gloria agli altri campioni dell’era Agnelli che ha visto altri aurei campioni omaggiati da France Football: Paolo Rossi, Michel Platini, Roberto Baggio, Zinedine Zidane, Pavel Nedved e Fabio Cannavaro. E con Cannavaro, l’azzurro bianconero campione del mondo nel 2006, l’anno dello scandalo di Calciopoli e la retrocessione in B della Juventus, si interrompe bruscamente la saga degli Agnelli. Lo stile Juventus che era stato difeso e sbandierato in tutto il suo splendore e in tutto il mondo nel ventennio (19711990) della presidenza dell’uomo di fiducia, Giampiero Boniperti, era stato svenduto al sistema Moggi. Il potente “Big Luciano” dal 1994 al 2006 ha fatto le fortune e le tregende processuali del club bianconero condannato all’inferno dei cadetti, da dove però era tornato più forte e vincente di prima. Ora l’ultima bella epoque bianconera, quella di Andrea che si è appena conclusa lascia delle ombre che sono al vaglio della giustizia e riaprono la pagina oscura della “maledizione” degli Agnelli.

Una maledizione che passa attraverso la vita splendida e luminosa, ma con un finale assai triste e solitario come è stata la parabola dell’Avvocato. Morto nel 2003, almeno gli è stata risparmiata l’onta della B, ma Gianni Agnelli se ne è andato con lo strazio di un padre che nel 2000 aveva dovuto riconoscere il cadavere del figlio, il 46enne Edoardo, ritrovato sotto il ponte di Fossano. Suicidio o morte di un Agnelli suicidato? Il mistero rimane. È sicuro invece che quello stile Juve è finito con l’uscita di scena della figura carismatica e stilosa dell’Avvocato, con la sua «erre moscia, la cravatta sul pullover e l’orologio sul polsino», sottolinea il tandem Cucci-Calzaretta. Con la morte di Gianni Agnelli (seguita un anno dopo da quella del fratello Umberto) si chiudeva anche il cerchio della “maledizione degli Agnelli” che per eventi tragici ha il suo corrispettivo solo con quella dei Kennedy. Una scia luttuosa iniziata con la morte accidentale dell’Avvocato senior e poi proseguita con la fine precoce di Giovannino, figlio di Umberto e fratello di Andrea, destinato a diventare il leader assoluto della real casa e che invece nel 1997 morì stroncato da un male incurabile a soli 33 anni. E allora, nei giorni di inchieste e accuse sulla presunta “malafinanza”, il tifoso bianconero può solo consolarsi rileggendo questa storia straordinaria della Juventus degli Agnelli, che anche sotto la nuova regia di John Elkann - il favorito del nonno, l’Avvocato - ha mantenuto nel suo dna il principio base dello stile della Vecchia Signora, quel mantra bonipertiano che recita perenne: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta».

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