venerdì 12 maggio 2023
Il racconto di una vita per la musica e per la sua città, quello del 78enne leader dei Napoli Centrale che oggi esce con il suo 21° album, “Stiamo cercando il mondo"
Il musicista e compositore napoletano James Senese

Il musicista e compositore napoletano James Senese - Mario Spada

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Se James Senese fosse nato in America, oggi sarebbe molto di più che un “Brother in soul”, titolo onorifico tributatogli nel ‘90 a New York, in una serata all’Apollo Theatre. « Infatti sarei stato Malcom X, perché nasco ribelle. Capito?», dice ridendo con la sua voce roca da finto burbero dal cuore grande, con quell’intercalare interrogativo, «capito?» che come un groove farà da contrappunto all’intera chiacchierata. E invece, questo pezzo unico della musica, nonostante l’aspetto e i tratti somatici, non è un black born in the Usa, ma è nato nel ventre di Napoli, dove comunque è da sempre un re, quanto meno del jazz e del soul, miscelato come un buon caffè della sua città, con funk e rock. Tutte materie prime che si ritrovano in ogni suo disco, compreso l’ultimo, Stiamo cercando il mondo, che esce oggi. Ventunesima prova d’autore del 78enne, figlio di madre napulitana, Anna Senese e di un soldato afroamericano, James Smith, che è rivolato in America quando il piccolo Gaetano (nome del nonno materno) aveva due anni. Sparito per sempre, e da allora, per la gente di Vico Parise, a Miano, Senese è stato sempre «Gems o’ nnire». Il caposcuola dell’eterno Neapulitan Power ha cominciato dai bordi della periferia partenopea studiando musica: allievo del maestro Santoro, a Piscinola. Poi il suo sax ha preso a girare a mille con gli Showmen, band fondata con Mario Musella. « Pure suo padre era un militare, un indiano d’America, un cherokee, ma Mario l’ha saputo dopo». Assieme hanno fatto un Sessantotto: con la cover riarrangiata di Un’ora sola ti vorrei vincono il Cantagiro di quell’anno. Soldi, successo, ma la terza “s”, quella del sound, li divide. Perché James scopre di non essere un’anima pop, è tarantolato dal jazz e a illuminare la sua strada futura spunta il faro, il sax di John Coltrane. «Sperimentazione, fondere jazz e rock progressive in un unico suono, era il mio primo comandamento» e quello lo mette in pratica con Napoli Centrale, il gruppo nato mezzo secolo fa e di cui resta ancora il leader maximo. Musica che parla alla gente, agli ultimi, ai lavoratori della terra, come la hit Campagna che nel ’74 «fa nu terremoto», scala la classifica e vende quasi 100mila copie. Un vero trionfo, anzi un miracolo di San Gennaro per la musica indipendente. Quattro anni dopo, alla porta di casa Senese bussa un guaglione folgorato da quella musica e chiede di entrare a far parte dei Napoli Centrale. Era l’uomo di Napule è, Pino Daniele.

James, ma se lo ricorda quel giorno in cui vi siete conosciuti con Pino Daniele?

Io a Pino lo conoscevo da sempre, da prima che venisse a cercarmi, eravamo la stessa cosa, due fratelli. E’ stato un amore reciproco che solo io e lui potevamo capire e spiegare a noi stessi. Quello con Pino rimane un incontro unico e irripetibile, come anche quello con Mario (Musella).

Pino Daniele è volato via per sempre il 4 gennaio del 2015, due giorni prima del suo 70° compleanno, lasciando un vuoto incolmabile. Il vuoto e l’assenza si avvertono anche nei testi del suo ultimo disco Stiamo cercando il mondo. Nel brano che dà il titolo all’album canta « non vogliamo vivere in un mondo che non c’è», a chi si rivolge?

A tutti. Penso di interpretare un sentimento comune a tanti che si sono adagiati e un po’ smarriti. Tutti stretti e chiusi nel nostro guscio in cui sopravviviamo, ci siamo adeguati a una cultura che ormai è dominata dalla tecnologia che da un lato ci ha resi più veloci, più smart come si dice, ma al tempo stesso ci distrae, non ci fa più vedere con lucidità né il passato, nè il presente e soprattutto alle nuove generazioni ha tolto la speranza nel futuro.

In Senza libertà a un certo punto dice: «C’h nascunnimmo pure a Dio… Ce sta ‘a guerra, ce sta ‘a famme, Chest’anime innocenti anna crescere e muri’ accussì…

E’ la storia dei nostri giorni. Noi ci illudiamo di vivere in un mondo libero, ma liberi non lo siamo mai stati. E te ne rendi conto soprattutto quando un pazzo si sveglia alla mattina e manda ragazzi a morire e a sparare ai civili, ai bambini alle povere anime innocenti, che poi sono le vere vittime di tutte le guerre.

Sempre in Senza libertà c’è quel passaggio severo in cui canta: «America è vecchia, Milano è luntana. Sanghe perduto ‘e na terra fernuta ‘e mane squartate d’a povera gente… Tutte chello che è stato è o’vero»

E’ così, è la realtà. Noi dovremmo guardare più alla cultura da cui proveniamo, invece anche nella musica i giovani che fanno? Scimmiottano gli inglesi, cantano in un finto americano. Mina, Ornella Vanoni, Gino Paoli, Fabrizio De Andrè… restano dei capostipiti perché hanno saputo cantare con la lingua della loro terra.

Anche voi di Napoli Centrale siete dei capostipiti, avete sempre cantato la vostra terra e in napoletano.

Noi abbiamo la fortuna di parlare una lingua universale che è anche musicale, ma ci vuole molto coraggio a cantare in napoletano. Oggi ci provano i rapper, i neomelodici, ma sti guaglioni non hanno ancora capito che per cantare il vero napoletano devi andare alla radice. Devi imparare a riconoscere e devi studiare fino a sentirtela nell’anima la Napoli dei grandi poeti, del teatro e della canzone tradizionale. I giovani napoletani, lo dico con il cuore, da questo punto di vista non stanno facendo “nu c…” (bip).

Eppure i giovani poi vengono ai concerti di James Senese.

E per forza, perché non studiano ma mica so’ scemi. Lo sanno che se vengono ad ascoltare la mia musica in due ore trovano, anzi scoprono, il passato, il presente e quel futuro che fanno fatica ad immaginare. E tutto questo succede da sempre, perché io non mi sono mai fermato, sono sempre stato alla ricerca di un mondo che non c’è, per scoprirlo o riscoprirlo.

Con Jesus is love, brano strumentale, dalle cromature sax celestiali, si comprende che anche la sua ricerca spirituale continua.

Io mi considero un “credente-credente” e non uno di quelli che fanno piangere alla Madonna. La fede l’ho cercata e la fede mi ha trovato. Volevo vedere qualcosa in più e non è da tutti andare oltre in questa ricerca di Dio. Io credo di esserci riuscito, anche grazie alla musica. Certe canzoni che ho scritto come Jesus is love o in passato O’ Sanghe , in fondo sono delle preghiere d’amore verso il Signore. E noi siamo poca cosa davanti a Lui, per questo siamo nelle sue mani. Capito?

Messaggio chiarissimo. Qualcuno invece fa ancora fatica a capire quel suo appello antirazzista lanciato tempo fa: « I napoletani avrebbero dovuto identificarsi in me, ma per alcuni il colore della pelle è stato per diverso tempo un limite, nonostante io sia napoletano di nascita e non abbia mai lasciato questa città».

E’ da quando sono nato che mi sono sentito dire “Si’ nnire”. Mio nonno Gaetano, mio grande maestro di vita, mi ha insegnato che dovevo fottermene, e così ho fatto. Ma il razzismo è una ferita sempre aperta in ogni società e io lo avverto ancora forte nello sguardo della gente che non mi conosce: quando vede i capelli ricci e la pelle nera, la prima cosa che pensa è “chist è un migrante”. Il razzismo di strada poi non fa rumore come invece quello dello stadio, dove 70-80 mila persone si sentono autorizzati a offendere Osimhen solo perché è “nnire”.

Alla faccia dei razzisti, Osimhen e il Napoli hanno appena vinto lo scudetto. La febbre Azzurra ha contagiato anche Senese?

No, ma vi spiego. Da una parte non posso che essere contento, è una festa che il popolo aspettava da 33 anni e io amo il mio popolo. Però a Napoli da sempre c’è il cattivo vizio che si mischia il buono con il male… E purtroppo io sono uno che vede e sente, e che a differenza di tanti che si dicono “napoletani” e che sono scappati via alla prima occasione, sono rimasto qua a difendere e a difendermi dal male e dall’invidia…

Una difesa a oltranza, come la voglia di salire su un palco e il ritorno nella “Milano luntana” (il 21 maggio per il concerto straordinario alla Sala Verdi del Conservatorio).

Fino a quando ne avrò la forza non voglio smettere di fare concerti. Mi piacerebbe tornare a suonare in America. Al Village Vanguard di New York per esempio non sono mai stato e quello sarebbe un posto ideale per fare ascoltare la mia musica. Capito?

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