venerdì 6 ottobre 2023
A Palazzo Loredan fino al 22 dicembre l'omaggio all'artista goriziano, che mancava dalla prima edizione della Biennale nel 1948. Tra suggestioni parigine e Grande guerra
Italico Brass, “Fuochi di Carnevale”, 1912-1913. Collezione privata

Italico Brass, “Fuochi di Carnevale”, 1912-1913. Collezione privata - Andrea Avezzù

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Il nome proprio parla chiaro: Italico. Il padre, commerciante di vini goriziano e buon bevitore, era di origini tedesche, ma si sentiva italiano fin nel midollo. Le sue propensioni irredentiste al seguito delle idee di un altro goriziano, Carlo Favetti, gli valsero le attenzioni della polizia austroungarica. Il figlio secondogenito (di sei), con un nome così poteva soltanto allinearsi alle orme del padre (a casa Brass lo erano tutti, i fratelli e persino i nipoti), tanto che Italico nel 1899, già sposato, venne arrestato per aver partecipato a un corteo irredentista. Fin da ragazzo, però, non voleva seguire il genitore sulla strada vinicola, perché sentiva crescere dentro di sé la vocazione di pittore. E questa vena alimenterà recandosi, dopo studi a Monaco, nella capitale dell’arte ottocentesca, Parigi, dove, nel 1893, a ventitré anni, partecipando al Salon de Paris con l’opera Chioggiotti alla briscola vincerà la Medaglia di bronzo.
Due anni dopo si sposa e porta la famiglia a vivere prima a Chioggia e poi a Venezia. Un passo che, col tempo, data la sua passione pittorica per il mondo lagunare, gli varrà la definizione di “Pittore di Venezia”, titolo cui si riferisce anche la mostra che la città gli dedica per la cura di Giandomenico Romanelli, uno degli storici più ferrati sull’arte veneziana, e della studiosa Pascaline Vatin (Palazzo Loredan, fino al 22 dicembre). Il gioco fra città, appellativo d’artista e tema della mostra chiude dunque il cerchio. È vero che la capitale veneta non dedicava una mostra a Brass dalla prima edizione postbellica della Biennale, quella del 1948, ma quello attuale è un po’ un omaggio senza colpi di scena, se non fosse per un quadro cupo, uno dei più grandi fra quelli in mostra, il cui soggetto esce dal programmato raffigurando un Rifugio durante un bombardamento aereo nella Grande Guerra, che a onor del vero mi è sembrato il più bello tra quelli esposti, per una sorta di verità-partecipazione alla drammatica atmosfera del momento. Eppure, è esposto quasi a latere della mostra, forse nutrendo qualche dubbio, ma poi riconoscendone l’alta maestria; a Palazzo Loredan sono esposte alcune tele dove, per altro, il pittore ha rappresentato le varie impalcature erette a protezione dei monumenti e degli edifici, come si vede in un quadretto con le strutture lignee disposte sulla facciata di San Marco, oppure, in un altro, all’interno della basilica. Italico ne aveva dipinti parecchi sui momenti di guerra, varie decine, come ricorda Vatin nel catalogo (Lineadacqua), dai bersaglieri ciclisti alle trincee sul Carso, ma molti erano dedicati alla vita veneziana sotto la minaccia delle bombe. E, in effetti, il quadro del rifugio è uno dei più eloquenti nel rendere il “tempo sospeso” dell’ictus bellico.

Italico Brass (1870-1943)

Italico Brass (1870-1943) - Wiki Commons

Romanelli dedica il suo saggio in catalogo a rileggere i modi pittorici di Italico concludendo che non imitò nessuno e non ebbe imitatori. In realtà, lo stile certo è personale, ma le suggestioni e i modi risentono di quel soggiorno parigino durato vari anni, che Brass però lega alla tradizione veneziana: si sentono le atmosfere tiepolesche, persino nella sprezzatura del tocco e delle sintesi pittoriche che, in realtà, aggiornano la lingua veneziana con quel pensiero “en plein air” a cui Italico si ispirò fin da quando ottenne il permesso di dipingere in Laguna nello spazio aperto. Romanelli evoca Sorolla ed Ettore Tito tra i pittori di scene balneari, la pittura di Brass però ha un ductus meno sciolto, eppure anche meno costruito, o programmato, e talvolta il colore tende a una informalità che si coagula in materici tocchi; ed è qui che la pittura di Italico è meno condiscendente col mito di Venezia. Proprio questa libertà unita alla magia della luce gli portarono la fama europea e internazionale. Il che, forse, va un po’ anche contro le stesse aspirazioni del pittore, che – scrive Romanelli – «coglie, all’inizio, questa realtà in veloce trasformazione… Le terrazze del Lido e tutto ciò che ancora avviene in una spiaggia non turisticizzata costituiscono la trama narrativa di numerosi suoi dipinti: mamme, balie e bambini, dame eleganti, qualche costume per il bagno...». Non si vuole certo stigmatizzare la bellezza dei corpi se si osserva la differenza di stile fra quelle spiagge ancora “vestite” e il “denudamento” oltre limite su cui veniamo, anche senza volerlo, continuamente sollecitati con rutilante spudoratezza a proposito dei benéfici effetti del controllo delle nascite dell’ultimo mezzo secolo (e qui ecco il nipote di Italico, grand gourmet di forme erotiche, che se ne esce con un palazzeschiano «e lasciatemi divertire»). Ostentare è, in fondo, la più rozza delle libertà e ce lo dicono proprio i quadri sul Lido dipinti da nonno Brass.

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