giovedì 14 maggio 2015
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Oggi Chris McCandless avrebbe 47 anni. Se fosse ancora vivo, se non fosse morto di stenti nell’estate del 1992, appena ventiquattrenne, dopo mesi e mesi in solitudine tra i boschi dell’Alaska. «Chi sarebbe adesso Chris? - dice la sorella Carine - Un professore universitario, forse, o magari un giornalista capace di sfidare il carcere pur di pubblicare rivelazioni scottanti. Ancora più probabilmente, sarebbe uno scrittore appassionato dell’avventura, proprio come Jon». Jon è Jon Krakauer, il reporter statunitense che per primo ha ricostruito la vicenda di Alexander Supertramp (è il nome con cui Chris si presentava dopo aver abbandonato tutto e tutti) nel best seller Nelle terre estreme, dal quale Sean Penn ha tratto nel 2007 il film Into the Wild - Nelle terre selvagge.  Non c’è lettore, non c’è spettatore di quella storia che non si sia domandato quale fosse il vero motivo di una scelta tanto radicale. Va bene il ritorno alla natura, va bene lo spirito d’indipendenza, ma una sensazione di incompletezza restava. A ragione, come dimostra il libro scritto da Carine Mc-Candless, Into the Wild Truth, 'Nella verità estrema' (traduzione di Rita Giaccari, Corbaccio, pagine 376, euro 17,60: l’autrice presenterà il volume oggi alle 13 presso la Libreria Hoepli di Milano e domani alle 13,30 al Salone internazionale del Libro di Torino, Sala Azzurra). Quello che prima si intuiva, ora viene dichiarato con dura franchezza: una famiglia perfetta solo in apparenza, segnata in realtà dalla bigamia del padre e da ripetuti episodi di violenza domestica. «Jon conosceva le lettere in cui Chris racconta del nostro passato - spiega Carine - ma ha accettato la mia richiesta di non farne uso. A distanza di tempo, mi sono resa conto che senza la conoscenza di quei retroscena la vicenda di mio fratello rischiava di essere fraintesa». Come se fosse solo un inseguimento della libertà a tutti i costi? «Chris cercava la libertà, di questo sono sicura anche se, per abitudine, evito di parlare al posto suo. Non ritengo, come è stato ripetuto, che fosse partito per trovare se stesso. Lui, al contrario, sapeva benissimo chi era, quello di cui aveva bisogno era un posto nel mondo nel quale vivere in compiutezza. Non desiderava la morte, ma dalla sua ultima fotografia, scatta poco prima di morire, traspare finalmente la serenità che tanto gli era mancata. Mi piace pensare che cercasse quello che anch’io ho sempre cercato, e cioè l’amore incondizionato di un padre». Per questo nel libro lei insiste così tanto sulla sua esperienza di madre? «Prendermi cura delle mie figlie mi ha cambiato profondamente e mi ha indotto a considerare da un nuovo punto di vista le scelte di Chris. Il mio desiderio è che i lettori possano fare altrettanto, considerando mio fratello non più come un personaggio quasi leggendario, ma come un essere umano, del tutto simile a loro. Mi capita spesso di essere invitata nelle scuole e nelle università a parlare di lui. Guardo quei ragazzi e mi rendo conto di avere davanti agli occhi gli adulti di domani, gli uomini e le donne che dovranno prendere decisioni cruciali. Futuri mariti, future mogli. E futuri genitori. Questo, per me, rimane l’aspetto più importante». Lei accenna alla possibilità del perdono. «Una possibilità che per me è più che altro una lotta quotidiana. Non accuso i miei genitori della morte di Chris, ma continuo a ritenerli responsabili del suo allontanamento. Allo stesso modo, non voglio sostenere di non essere stata amata, o di avere avuto un’infanzia terribile. Vivevamo in una bella casa, avevamo cibo in abbondanza, andavamo con regolarità dal medico e dal dentista. A mancarci, però, erano una fede autentica, la fiducia nei nostri genitori, la loro onestà nell’ammettere i propri errori. In questo senso, la mia non è la storia di una vittima, ma di una sopravvissuta». L’avrebbe raccontata comunque, anche se non ci fosse stata da difendere la memoria di Chris? «L’amore che porto alle mie figlie mi avrebbe portato a testimoniare, presto o tardi. La violenza domestica è un tema su cui non si può tacere, se non altro perché le persone che vi sono coinvolte, specie se molto giovani, tendono a non parlarne. Scatta un meccanismo terribile, che ho visto tante volte in Chris: a forza di sentirsi ripetere che quello che succede è tutta colpa tua, ti convinci di essere colpevole, accetti questa condizione e la subisci senza farne parola con nessuno». Che cosa consiglierebbe a chi si trova in una situazione del genere? «Di non perdere la speranza, anzitutto. Non sempre possiamo avere il controllo di quanto ci accade, ma possiamo tenere a bada le nostre reazioni, possiamo evitare le conseguenze più devastanti. Ognuno ha la sua strada, per quanto difficile da percorre. E ognuno ha il diritto a esprimere la propria voce. Come ha fatto Chris». Suo fratello era credente? «Di certo non pensava che tutto si esaurisca nella concretezza della materia. Vede, i miei tenevano molto alla nostra educazione religiosa, per quanto poi a casa si vivesse in tutt’altro modo. Nonostante questo, Chris non ha mai rinunciato a cercare la verità. La mia convinzione è che, mentre si avvicinava la morte, sia davvero riuscito a trovarla».
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