sabato 4 febbraio 2012
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​Abbiamo appena salutato il suo ritorno sul grande schermo con Tintin in 3D, che eccolo di nuovo in pista, Steven Spielberg, questa volta con uno di quei filmoni classici che fanno tirare fuori i fazzoletti. Frutto di un colpo di fulmine per la piece teatrale a pupazzi vista nel west end londinese, a sua volta tratta dal romanzo di Michael Morpurgo, War Horse, dal 17 febbraio nelle sale italiane distribuito da Walt Disney (e candidato a sei Oscar), è la storia di una grande amicizia, quella tra un cavallo e un ragazzo. Il primo, Joey, venduto all’esercito inglese durante la prima guerra mondiale, viene impiegato al fronte. Il secondo, Albert, si arruolerà pur di ritrovare e riportare a casa l’amato quadrupede. Riuscite a immaginare niente di più spielberghiano?Abbiamo incontrato il papà di E.T., premio Oscar per Schindler’s List a Londra e lui ci ha raccontato come per lui il cinema sia ancora questione di sogni. E di improvvisi innamoramenti. «Le idee possono arrivare in ogni momento – dice sorridendo – anche solo guardando il cielo».L’idea di «War Horse» è arrivata invece dal palcoscenico…Ho visto lo spettacolo con mia moglie e alla fine eravamo entrambi commossi. Ho deciso quindi di farne subito un film.Detta così sembra un gioco da ragazzi. Allora lei è proprio il re di Hollywood…Mi lascio conquistare dalle storie che regalano grandi emozioni e in genere le grandi emozioni sono capaci di conquistare anche un vasto pubblico.Dopo «Salvate il Soldato Ryan» torna a raccontare la guerra, questa volta la Prima. Cosa l’attira di quella esperienza umana?Sono cresciuto ascoltando le storie di mio padre, veterano della Seconda Guerra Mondiale. Da ragazzino vedevo tutti i film di guerra che arrivavano nelle sale e leggevo decine e decine di libri di Storia che è costellata di conflitti. Ma se la guerra combattuta da mio padre era un male necessario, la Prima avrebbe potuto essere evitata con la diplomazia. Anche in tempi più recenti molti dei conflitti che hanno insanguinato il mondo avrebbero potuto essere evitati, ad esempio quello in Iraq.La guerra tornerà anche nel suo prossimo film, Lincoln, interpretato da Daniel Day Lewis.Affronterò la Guerra Civile americana che è costata più vite di tutti gli altri conflitti combattuti dal mio paese messi insieme. Arriverà nelle sale il prossimo dicembre, a elezioni avvenute, per evitare facili strumentalizzazioni politiche. Anche nel fantascientifico <+corsivo>Robopocalypse<+tondo> però si combatterà, questa volta umani contro robots.«War Horse» però non è solo un film di guerra…Non solo. Mi stava a cuore l’idea di mettere in scena l’opposizione tra violenza e innocenza attraverso la storia di un animale che con la sua dolcezza abbatte le barriere che separano gli uomini.I registi tremano all’idea di lavorare con bambini e animali. Lei con i bambini se l’è cavata benissimo. Com’è andata con i cavalli?Una delle mie figlie cavalca da quando aveva tre anni e per questo vivo in mezzo ai cavalli. Mi hanno sempre suscitato grande rispetto, ma non sapevo che fossero così intelligenti e sensibili. Non sapevo neppure che durante la Grande Guerra ne morirono milioni perché venivano usati come delle vere e proprie armi, prima che i carri armati ne prendessero il posto. La sfida maggiore era naturalmente comunicare i pensieri dell’animale senza però farlo parlare con una voce fuori campo, come accade a teatro. Il punto di vista di Joey, interpretato da due cavalli, Abaham e Finder, è affidato dunque alla macchina da presa. Certo, i 280 quadrupedi nelle scene di massa non sono stati uno scherzo!Ha lavorato con grandi star del calibro di Tom Hanks, Tom Cruise, Leonardo DiCaprio, eppure sembra che si diverta di più a scoprire nuovi talenti.Mi piace scovare volti nuovi e dare ai giovani la possibilità di farsi notare, com’è accaduto a Drew Barrymore per la quale dopo E.T. sono come un padre e a Christian Bale che nell’Impero del Sole era ancora un bambino. Jeremy Irvine che vedrete in War Horse possiede proprio quel candore e quell’innocenza che caratterizzano la giovinezza. Amo la purezza più che gli intellettualismi. Credetemi, sono padre di sette figli e pratico quel che predico.Si spieghi meglio.Allevare i miei ragazzi è stata una gioia, ma è altrettanto eccitante pensare che intere generazioni di spettatori siano cresciuti e continuino a farlo con i miei film. Questo è un grande premio per me, ma mi spinge anche a un forte senso di responsabilità. E in cosa si esprime il suo senso di responsabilità?Nella difesa del contenuto dei miei film. Mi sento moralmente responsabile delle storie che scelgo di raccontare.Il suo primo lungometraggio, «Duel», festeggia 40 anni mentre «E.T.» ne compie 30. Cosa le viene in mente quando pensa a questi film?Duel mi riporta agli anni Settanta e a un’irripetibile generazione di cineasti come Coppola, Scorsese, De Palma, Lucas. Questa estate per la prima volta abbiamo fatto una grande rimpatriata proprio in Italia. E.T. invece oggi che sono un nonno lo riguardo con i miei nipotini e mi tocca tranquillizzarli quando li vedo in ansia per la sorte del piccolo alieno.
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