sabato 1 luglio 2017
Intervista al campione italiano nel giorno della partenza della Grand Boucle: «All’infortunio ho risposto con il lavoro, alla morte del mio amico Michele con la preghiera»
Fabio Aru con la maglia da campione d'Italia (Ansa)

Fabio Aru con la maglia da campione d'Italia (Ansa)

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Si sono scambiati una maglia, perché Fabio aveva una “xs” ma voleva provare una “s”. Così Michele Scarponi gli ha dato una sua maglia e Fabio l’ha ricambiato donandogli la propria. Da quando è tornato a correre, dopo l’incidente al ginocchio sinistro che gli ha impedito di correre il Giro d'Italia e l’ha proiettato verso il Tour, il sardo ha sempre usato la maglia di Michele. Anche una settimana fa, ad Ivrea, dove si è laureato campione (d'Italia) di taglia: “s”. «In questo ultimo periodo ho davvero vissuto tantissime emozioni, tutte molto forti, alcune davvero terribili – ci spiega Fabio, che con il tricolore disegnato sul petto, correrà con grandi ambizioni il suo secondo Tour – . Prima l’incidente del 2 aprile, a Sierra Nevada. Poi la morte di Michele (Scarponi, ndr), che mi ha gettato nello sconforto e mi ha fatto capire che gli incidenti di percorso sono tali, e vanno affrontati per quello che sono. Davanti alla morte c’è solo la preghiera. Davanti ai contrattempi c’è solo il lavoro».

Fabio Aru è uomo che è abituato a ragionare e, soprattutto, a pesare le parole.

«Recuperare dall’incidente al ginocchio non è stato facile, ma alla fine era la cosa più semplice che mi potesse capitare. Il difficile era superare quel terribile shock».

E allora sotto con il lavoro. Con le ore di lavoro, seguito dal fedele Maurizio Mazzoleni. Poi il momento di misurare concretamente il lavoro svolto. E le domande. Quelle di sempre, che accompagnano ogni rientro: a che punto sarò?

«È stato proprio così, tanto lavoro. Molto sudore e sacrificio, per un unico obiettivo: recuperare al meglio la funzionalità del ginocchio picchiato. Al Delfinato ci sono arrivato con dei dubbi, non sapevo a che punto fossi perché mi mancava il confronto. Sono tornato a casa con delle certezze, trovando le risposte che cercavo».

E poi Ivrea, per cambiare la “livrea” in vista del Tour…

«È stato un giorno speciale, per me, per Valentina, per il mio team, per quanti mi vogliono bene. Non l’avevo mai esplicitato, ma la maglia tricolore era uno dei miei grandi sogni».

Il Tour del debutto poteva essere il suo capolavoro, se non ci fosse stato quel “black out” al penultimo giorno, con la crisi e il salto all’indietro dal 6° al 13° posto della generale.

«Mi piacerebbe riprendermi quello che sento che non mi è stato dato, anche se io penso di aver davvero imparato tanto dal Tour di un anno fa. Dopo quella tappa di Morzine, dove ho sofferto come non mai, ho spostato i miei limiti del dolore ancora più in là».


Al Tour ci sarà da soffrire, anche perché in Francia di campioni ce ne saranno un sacco: ad incominciare da Chris Froome.

«Ha una squadra che fa pura, nessuna è attrezzata quanto la Sky. Froome, poi, ha una classe immensa: sarà lui il faro della corsa. Occhio però a Richie Porte, che sta andando fortissimo, e sono curioso di vedere cosa farà Nairo Quintana, che forse al Giro non è mai stato davvero bene, ma io non l’ho mai visto andare realmente piano. Poi attenzione a Bardet e Chavez. E a quel talento assoluto che è Alberto Contador».

Qualcuno sostiene che Contador sia “finito”...

«Fin quando ha un numero spillato sulla schiena, tutti dovranno fare i conti con Contador».

Quali saranno le tappe più insidiose?

«Si comincerà a fare sul serio dalla quinta tappa, quella che ci porterà a La Planche des Belles Filles. Bella anche la numero nove, che arriva a Chambery, con la Gran Colombier e il Mont du Chat che abbiamo anche affrontato al Delfinato. Altro snodo importantissimo è dato dalla tappa numero 17, sulle Alpi, frazione che si concluderà a Serre Chevalier, con la scalata della Croce di Ferro e del Galibier, la cima del Tour (2.642 metri, Souvenir Henri Desgrange, ndr) e, il giorno seguente, il Vars e l’arrivo su in cima all’Izoard».

Strategie, cose da dire prima del via?

«Al Tour c’è poco da dire, c’è molto da pedalare. Il livello è sempre altissimo, sia come individualità, che come squadre: guai a sottovalutare qualcuno. Ma anche loro non dovranno sottovalutare il sottoscritto. Questo è sicuro».

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