mercoledì 20 aprile 2016
​Il filosofo Tronti: la crisi della politica e la dissoluzione del concetto di persona.
L'individualismo ha ucciso la sinistra
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​Di sicuro non va meglio. «Anzi, negli ultimi anni la situazione si è aggravata», commenta il senatore Mario Tronti a proposito dell’emergenza antropologica da lui denunciata, “da sinistra”, nel 2011 con una lettera aperta condivisa con Pietro Barcellona, Paolo Sorbi e Giuseppe Vacca. Gli ultimi due firmatari hanno di recente partecipato al dibattito con l’onorevole Gianni Cuperlo e il senatore Stefano Lepri promosso da Avvenire, i cui risultati sono stati pubblicati sull’edizione dello scorso 10 aprile. Filosofo, militante di lunga data prima del Pci e oggi del Pd oltre che teorico riconosciuto dell’operaismo (il suo libro più recente è Dello spirito libero, il Saggiatore), Tronti dichiara di essere rimasto colpito dalle tre parole che campeggiavano nel titolo di quella sintesi: «Politica, vita, libertà – elenca –. È da qui che occorre ripartire».Cominciamo dalla politica?«In fortissima crisi, purtroppo, come lo sono i rapporti sociali e i rapporti umani su cui la società si fonda. In questo contesto le iniziative legislative possono avere la funzione, peraltro positiva, di suscitare la discussione, ma la tendenza a risolvere ogni problema sul piano giuridico impedisce di affrontare le questioni di fondo, in questo momento drammaticamente disattese».A che cosa si riferisce?«Al tema della vita, in primo luogo, il cui legame con la politica è indissolubile e indispensabile, proprio come quello fra storia e morte. Il clima di tensione, innescato dalla minaccia terroristica, alimenta un sentimento di insicurezza che incide nella quotidianità delle persone, prestandosi a strumentalizzazioni che, anziché risolvere il problema, contribuiscono ad aggravarlo».

E la vita?«È sempre più affidata al dominio delle tecnoscienze, espressione che non indica affatto l’auspicabile assoggettamento della tecnica alle ragioni della scienza. Al contrario, è la scienza a mettersi al servizio di meccanismi e procedure il cui obiettivo consiste, da ultimo, nella fabbricazione della vita umana. Si afferma un senso di onnipotenza che impedisce di riconoscere e rispettare qualsiasi limite, esaltando un individualismo parossistico. La convinzione che si sta diffondendo è che, in presenza di una strumentazione tecnica adeguata, nulla è impossibile e tutto diventa lecito».In passato la sinistra avrebbe contrastato questa deriva. Perché oggi no?«Qualcosa si è guastato, bisogna ammetterlo. Sarei tentato di dire che ha di nuovo vinto il mercato, ma precisando che il mercato non è altro che la rappresentazione simbolica dello scompenso in atto nei rapporti sociali. Si tratta di una potenza che si pretende illimitata e che negli ultimi decenni ha esteso la sua influenza fin dentro le persone, col risultato paradossale che oggi, più si procede verso la sinistra estrema e radicale, più si raccolgono concessioni e consensi relativi alla cosiddetta “cultura dei diritti”. A opporre una qualche resistenza è la sinistra moderata, che una volta si sarebbe detta “di governo” e che di per sé non dovrebbe affatto svolgere questa funzione. Prevale su tutto l’illusione che essere progressisti significhi essere sempre e comunque più avanti. Una convinzione abbastanza ingenua, per cui oggi è meglio di ieri e domani sarà meglio ancora».Qual è, secondo lei, la chiave di volta del processo?«L’individualismo, che ormai ha sbaragliato anche il campo di quanti dovrebbero opporsi a ogni forma di sfruttamento, a ogni imposizione del mercato, alla crescente artificializzazione della vita. La società "liquida", denunciata a suo tempo da Zygmunt Bauman, è ormai accettata e perfino elogiata come inoppugnabile dato di fatto in tutta la sua vaghezza e inconsistenza».In quale misura la famiglia è coinvolta in queste trasformazioni?«Nonostante il deterioramento generale, in Italia la famiglia è riuscita a reggere l’urto, impedendo l’esplosione di conflitti sociali che restano latenti. Va in questa direzione la permanenza dei giovani in casa, dove le istanze di rivolta vengono in qualche modo smorzate. Sì, la famiglia funziona ancora come piccola impresa economica, ma non sono altrettanto ottimista per quanto riguarda la formazione delle nuove generazioni. In questo ambito mi pare che il rumore di fondo proveniente dall’esterno abbia finito per prevalere, mettendo seriamente in discussione il ruolo educativo della famiglia».La responsabilità è di nuovo politica, quindi?«Fino a una certa fase della sua storia la sinistra italiana ha conservato la capacità di farsi carico dei bisogni sociali nello stesso momento in cui promuoveva i diritti personali. Personali, ripeto, e non individuali, perché il nodo è ancora questo. Nel nostro Paese la crisi delle grandi compagini popolari (il Partito comunista da una parte, la Democrazia cristiana dall’altra) è andata di pari passo con la dissoluzione del concetto di persona. Si è prodotto così un vuoto che nulla, finora, è riuscito a colmare, nemmeno in termini di aggregazione politica».Cinque anni fa lei fu definito “marxista ratzingeriano”: oggi si sente un po’ bergogliano?«Siamo entrati in un’epoca nuova, è evidente, così come è chiaro che papa Francesco è l’unico a levare la voce contro i fenomeni di sfruttamento e ingiustizia. Il suo messaggio è efficace in America Latina e in Africa, ma temo che sia meno ascoltato in Europa. Occorre sfatare il pregiudizio per cui, eccezion fatta per le povertà che arrivano “dall’esterno”, nel nostro Continente il problema dell’emarginazione sarebbe risolto. Non è così, e Bergoglio fa bene a ricordarcelo con gesti anche esemplari, come quello di sabato a Lesbo. Impegnata nella battaglia per i diritti civili, la sinistra rischia di perdere di vista la dimensione dei bisogni. Il suo compito, al contrario, dovrebbe consistere nel dare concretezza politica alla visione “francescana” suggerita con insistenza sempre maggiore dal Papa».

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