sabato 1 agosto 2015
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Nel suo stile schietto e provocatorio Ashis Nandy, scrittore, analista politico e psicologo sociale, non esita a criticare la pretese dell’induismo militante, che con una serie di iniziative punta a contrastare attivamente le conversioni al cristianesimo, istigando in questo modo a discriminazione e violenza. Da qualche tempo, associata a un aumento degli atti persecutori, si registra una campagna che mira al rientro nell’induismo di gruppi tribali o dalit convertitisi in passato al cristianesimo (ma anche a buddhismo e Islam) per cercare migliori opportunità e minore discriminazione. Una tendenza, quella promossa da organizzazioni politiche e sociali di ispirazione religiosa estremista, incentivata con benefici pratici e intimidazioni, non ostacolata dal governo nazionalista e filo-induista in carica da un anno a New Delhi e che di esso si avvantaggia. Da sempre un outsider della cultura, Nandy vive senza apparenti contrasti l’origine cristiana e il convinto laicismo, schiva con convinzione e qualche rischio le minacce integraliste. Indiano di nascita ma intellettuale globale per scelta, ha pubblicato una quarantina di volumi, tra cui The Intimate Enemy (di cui lo scorso anno Forum Edizioni ha pubblicato la traduzione italiana: Il nemico intimo. Perdita e recupero dell’identità sotto la dominazione coloniale). A lui l’editore Routledge dedicherà il volume The Postcolonial Politics of Ashis Nandyin uscita a fine anno In che modo gli attacchi alla comunità cristiana la coinvolgono? «Mi rattristano, anzitutto. Io sono cresciuto in un’atmosfera in cui aggressioni di cristiani o anche una campagna contro di loro erano impensabili. A Calcutta, dove ho vissuto con la famiglia, la comunità dei battezzati è individuata come parte dell’ambiente e ha giocato un ruolo importante nel definire la cultura cittadina. Personalmente mi ritengo parte di questa comunità anche se sono non credente dall’adolescenza, con grande tristezza dei miei genitori, cristiani devoti». Come analizza le tensioni anticristiane nel contesto politico e culturale attuale? «Non ho dubbi che gli attacchi in corso siano organizzati. Una situazione che dura da tempo. È triste pensare che qualcuno non possa sentirsi sicuro anche quando è parte di una comunità che è solo il 2,5 o l’1,5% della popolazione. Una condizione che mostra come l’incapacità di accettare la diversità sia diventato un fattore rilevante della vita pubblica e della politica indiane. In India l’opposizione è sempre nella maggioranza e i nazionalisti al potere dimenticano di essere arrivati al governo con solo il 31% dei voti e che sono al potere perché oggi non c’è un’opposizione credibile». Ritiene possibile isolarsi dall’influenza induista? «Non lo credo possibile. Mio padre, ad esempio, è sempre stato molto orgoglioso della sua conoscenza del sanscrito [lingua dei testi della grande tradizione induista, ndr] e ha spinto noi figli a studiarlo con profitto. Il Rashtriya Swayamsevak Sangh [movimento capofila dell’induismo radicale attivo nell’opera di riconversione, ndr] è fondamentalmente un impianto occidentale, coloniale. Tutte le categorie dell’Rss sono europee, cominciando con la teoria del hinduttva, induità. Un concetto che implica un territorio, un cultura, una nazionalità e un’ideologia nazionalista. Uno stato europeo tipo la Westfalia. La teoria, espressa dal fondatore Savarkar nel testo Kalapani, di uno Stato fondato sugli ideali di casta non include cristiani e musulmani che dovrebbero per questo essergli grati. Io sarei il primo a morire di noia in una simile situazione. Un tempo molti sarebbero stati d’accordo con me, ma ora sembra che ci sia un gruppo di giovani, in particolare indiani della diaspora che, sentendosi forse colpevoli di scaricato l’India, si sgolano per proclamare le bellezze di un Paese, una cultura, una nazione che è loro solo in parte». Quali sono le ragioni della sua opposizione al processo di riconversione delle minoranze? «In materia di conversione sono d’accordo con Gandhi, che non la credeva possibile. Molti in Occidente si avvicinano a Gandhi come se si trattasse di un guru orientale. Il Mahatma, tuttavia, sarebbe il primo a consigliarli di leggere i propri testi religiosi e trovarvi valori in cui credere e la motivazione a lottare per essi. Non credo in una gerarchia delle fedi. Non si può dar vita a una gerarchia di tradizioni spirituali. Non si può nemmeno dire che una tradizione sia superiore sulla base di una presunta maggiore tolleranza rispetto a altre, come molti indù stanno facendo: affermano di avere sempre creduto nella diversità, che tutte le religioni sono vie verso la stessa meta, ma immediatamente aggiungono che essi sono più tolleranti. Quindi, migliori». «Ho scritto contro di esso perché è insensibile a quanto le religioni fanno o non fanno e perché è teoricamente e filosoficamente carente. Il secolarismo applica una nuova gerarchia dove la tolleranza dei poveri non ha nome, mentre il termine è applicato alla tolleranza indiana occidentalizzata che la maggior parte degli indiani nemmeno capisce. Soltanto il 2,5% dei miei connazionali conoscono l’inglese e di questi, probabilmente solo l’1% è in grado di compitare la parola “secolarismo”. L’India è un insieme di comunità, quindi dobbiamo imparare a rispettare la nostra appartenenza comunitaria, come pure quella altrui. Questo sarebbe già sufficiente».
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