martedì 21 maggio 2019
Fare i conti con quel che siamo non è facile soprattutto nello snodo cruciale che ci pone davanti alla morte. Una riflessione del prelato e scrittore anglicano dal suo libro "La dolcezza dell'addio"
“San Pietro penitente” del Guercino (1639), conservato alla National Gallery of Scotland

“San Pietro penitente” del Guercino (1639), conservato alla National Gallery of Scotland

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Raggiungere una prospettiva oggettiva su sé stessi è difficile, ma vale lo sforzo che richiede. Sí, dobbiamo riuscire a dirci, è questo che sono stato, ed è questo ciò che ho fatto. Non c’è ragione di desiderare di essere stati diversi: qualcuno capace di agire sotto pressione, qualcuno fedele al proprio amore, un genitore migliore, un compagno di vita piú attento. Nel bene e nel male sono stato ciò che sono stato. È questo il motivo per cui la vista dalla cima della propria esistenza mette a dura prova. Mi è capitato di trovarmi al fianco di persone che, mentre giungeva la morte, erano divorate dai rimorsi per gli errori commessi durante il cammino. Per le strade sbagliate che avevano imboccato; per i legami spezzati e mai recuperati, per figli che li accusavano di essere la ragione di tutti i loro problemi.

Guardarsi indietro quando si è vecchi può aggiungere ulteriore peso a un’età già difficile. Cosí vorrei suggerire un modo per togliere un po’ del dolore dovuto al rimpianto. E voglio iniziare a farlo guardando a un grande ritratto del XVII secolo. Il dipinto è San Pietro penitente del Guercino. Fu dipinto nel 1639 e ora è conservato alla National Gallery of Scotland. Vi è raffigurato san Pietro apostolo col volto affranto d’angoscia, qualche istante dopo aver tradito Gesú. Il tradimento di Pietro è una storia molto nota, ma vale la pena soffermarvisi ancora per quel che pu. insegnarci sulla natura umana. Pietro era un uomo impulsivo, non teneva mai a freno la lingua e dichiarava di continuo la propria devozione a Gesú. Quando fu evidente che la sfida di Gesú alle autorità politiche e religiose lo avrebbe portato all’arresto per sedizione e blasfemia, Pietro fece ancor di piú la voce grossa. Tutti gli altri potranno abbandonarti, maestro, disse, io non lo farò mai. Preferirei morire che tradirti. Dirò a quelli che verranno a prenderti, venite avanti! Se volete Gesú dovrete passare sul mio corpo. E non lo fece solo per sbruffoneria. Pietro credeva a quel che stava dicendo. E avrebbe davvero voluto farlo. Perché quello era il genere di uomo che pensava di essere; o che voleva essere.

I soldati arrestarono Gesú nel cuore della notte, come sempre accade, e lo portarono via cosí che fosse processato, la sua condanna a morte già scritta. Pietro li seguí, nascosto nell’ombra, osservando quel che stava succedendo. Per tre volte nelle ore che seguirono fu spinto a confessare di essere un amico di Gesú. E per tre volte lo negò, con convinzione sempre maggiore. «Non conosco quest’uomo», urlò alla fine. Il Vangelo di Luca narra che alla terza Gesú si girò per guardare Pietro. E Pietro fuggí andando a versare lacrime amare. Chiunque abbia abbandonato un amico o una persona amata nel momento del bisogno conosce il sapore di quelle lacrime. Il dipinto di Guercino coglie il dolore disperato di Pietro per il suo tradimento, e anche a noi viene da piangere solo a guardarlo. È importante rendersi conto che Pietro non sapeva di essere destinato a tradire Gesú finché non lo ha fatto. Lo amava davvero. Voleva davvero morire insieme a lui. Eppure quando fu costretto a provarlo fece l’esatto contrario di quanto avrebbe voluto. È facile immaginare il vuoto che sentí dopo averlo tradito. Si odiava per quel che aveva fatto, per l’uomo che aveva dimostrato di essere a Gesú. Ma non sapeva di essere chi era davvero fino a quel momento nel giardino, quando scoprí di non essere cosí coraggioso e leale. Era un uomo debole, solido come l’acqua.

Non sappiamo abbastanza di Pietro per comprendere cosa lo portò a diventare un traditore. I Vangeli non sono biografie. Sono bozzetti. Ma un disegnatore abile può tratteggiare un personaggio anche con pochi tocchi. Capiamo subito che tipo d’uomo era, perché siamo abituati alle trame complesse del comportamento umano. Ci sono i gradassi che si nascondono dalle loro stesse paure. Ci sono quelli che odiano il desiderio degli altri perché non riescono ad ammetterlo in loro stessi. Le contraddizioni del sé sono infinite. E la gran parte di ciò che Eliot definisce «pena autoinflitta» . dovuta al nostro rifiuto di conoscerci. Lasciate che tragga qualche conclusione dalla vicenda di Pietro. Quando i discepoli di Gesú dovevano recitare la preghiera che lui aveva insegnato loro dicevano: «Non ci indurre in tentazione»; o come vuole una traduzione moderna: «Non ci mettere alla prova». Ci sarà forse stato un pizzico di ironia in ciò che Gesú stava cercando di far loro capire. Era circondato da uomini che si vantavano dicendo che non l’avrebbero mai tradito, qualunque cosa fosse successa. Eppure quando venne il momento di dimostrarlo, fuggirono tutti. E toccò a quello che si vantava di piú fare la figura piú miserabile, a Pietro, il suo braccio destro.

Gesú sapeva quanto potesse essere facile condurre una vita senza mai essere messi alla prova, inconsapevoli della propria vera natura. Ecco il motivo per cui ammoniva dal condannare gli altri per aver fallito in ciò che a noi non è ancora toccato in sorte. Ed ecco il motivo per cui col suo sguardo di comprensione spezza il cuore di Pietro. Ma in quel momento Pietro incomincia a maturare una consapevolezza di sé. Possiamo andare avanti nell’esistenza senza sapere chi siamo fino a quando la giusta combinazione di circostanze ci mette alla prova rivelando il nostro vero carattere. È come se la parte che occupiamo nella recita ci fosse ignota finché a svelarcela, e a farci scoprire il nostro sé profondo, non intervenisse la contingenza. Ma quando giunge il momento, e ci dischiudiamo a noi stessi, dobbiamo essere capaci di accettarlo e ammettere cosa siamo e non siamo in grado di fare.

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